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domenica 30 novembre 2008

Un orsacchiotto mi protegge, VI

[Potrei averlo sognato. Potrebbe essere stato un colpo di sonno, ma ciò non toglie il merito a Leonard]
Estate. Agosto, sabato notte. Sono stato in giro con un paio di amici a farmi una birretta dopo Mattarello, ora sto guidando in direzione di casa, a Cadine. Deve essere mezzanotte e mezza, sono stanco e mezzo assonnato.
A Trento Sud prendo la tangenziale, per arrivare verso la Gardesana Occidentale saltando di passare in città. Dopo aver affrontato la rotonda all'ingresso sud di Trento, e mentre sto imboccando la corsia verso la zona Ghiaie, quasi meccanicamente dopo aver scalato di marcia allungo la mano in direzione di Leonard, per dargli una leggera grattatina al mento.
Un dolore incredibile all'indice destro, come se qualcosa me lo avesse preso sopra e sotto.
Come un morso.
Ritiro indietro la mano tirando un porcone, e contemporaneamente pianto un frenatone, spaventato: che mi abbia punto un'ape? Non credo di essere allergico, ma chi può saperlo? Ho la chiara impressione del dito umido, come se sanguinasse.
Sono ancora sulla rampa e ad una ventina di metri dall'uscita del complesso sportivo Ghiaie, ho appena lasciato metà dei copertoni a terra e sono fermo praticamente in mezzo alla strada, ma è un'attimo: una punto bianca si fionda fuori dal bivio di Ghiaie una frazione di secondo dopo, a tutta velocità.
L'autista guida come un pilota di formula uno, ma l'asfalto non lo aiuta e perde il controllo dell'auto, mancando di impattare contro il guard-rail di sinistra per un capello e un quarto. Poi accelera stridendo e va in avanti zigzagando pericolosamente, a chiaro sintomo che deve essere ubriaco come un bucaniere dopo una settimana di razzie e grog.
Stendo la mano destra davanti a me, mi guardo l'indice destro, che è perfetto e non riporta alcun segno, alcuna puntura né altro. E mi rendo conto che non mi fa più male. Metto la prima, riparto. Se non avessi frenato, quel cretino mi sarebbe finito sul sedile passeggero con tutta la macchina.
Ho detto "Grazie Leonard", ma per quella sera non mi sono azzardato a grattargli di nuovo il musino...

venerdì 28 novembre 2008

Un orsacchiotto mi protegge, V

[Questo non è un racconto: *GIURO* che questo è realmente accaduto]
Inverno inoltrato, diciamo primi giorni di gennaio. Mia madre è a Trento, io sono solo a casa. Sono stanco, sono le 23:30 e ho appena finito di spolpare un libro giallo di Agatha Cristie. La mia collezione di orsacchiotti di peluche non è ancora molto ampia, ma i miei gesti sono già chiaro sintomo ed appannaggio di qualche serio problema esistenziale.
Poso il libro sul comodino. Sono stanco e gli occhi mi danno fastidio (e poi, l'anno dopo, sono venuti gli occhiali...), per cui spengo la luce e mi giro sul fianco sinistro, stringendo fra le braccia Philippe. Nel farlo, meccanicamente come faccio tutte le sere, auguro la buona notte al giro di orsacchiotti di peluche intorno al letto fra comodino e mensola: "Buona notte ragazzi, sogni d'oro".
Una voce. Chiara. Cristallina, non molto forte e chiaramente dentro la mia stanza mi risponde: "Buona notte anche a te"
Zompo in piedi e riaccendo la luce. Mi guardo intorno. Guardo sotto il letto. Guardo tutti i pupazzi sulla mensola e sul comodino.

Chi mi ha risposto? Io un'idea me la sono fatta, comunque: sono convinto che mi abbia risposto Tasia.
Nessun altra voce mi ha risposto da allora, sebbene io tuttora auguri la buona notte ai miei cuccioli prima di addormentarmi.

mercoledì 26 novembre 2008

Dalle sette alle otto

[Non è un racconto: questa è verità, signori]
Mi è successo diversi anni fa. Tuttora non ne trovo una spiegazione razionale e valida.
Mi sveglio. La radiosveglia segnala che sono le 7:10 del mattino. So che sono le sette e dieci perché oltre ad aver guardato la radiosveglia, ho guardato anche l'orologio al polso: non mi tolgo l'orologio manco per dormire, e spesso guardo l'ora compulsivamente solo per sapere che l'orologio è ancora li ed è funzionante.
Mi alzo, peraltro, proprio mentre guardo l'orologio da polso. Mi alzo, appunto, e in pigiama vado in bagno.
In bagno mi limito a tre operazioni semplici: faccio pipi', poi tiro l'acqua e mi lavo i denti.
Esco in cucina per tornare in camera da letto indeciso se tornare a dormire (è domenica mattina), ma mentre esco dal bagno il mio occhio destro cade sull'orologio della cucina, che fa le 7:50 passate.
Quasi le otto meno cinque. Resto fermo per qualche istante, sicuro di vedere la lancetta dei secondi ferma (deve essersi fermato ieri sera, ovviamente!), ma la stessa va avanti tranquillamente.
E come può l'orologio essere avanti di quasi tre quarti d'ora? Guardo l'orologio da polso. Anche lui fa le otto meno cinque.
Guardo di nuovo l'orologio da polso, poi quello della cucina. Torno in camera da letto. La radiosveglia dice, laconicamente: 7:56.
Non sono convinto, riguardo l'orologio da polso. Poi addirittura telefono per sentire l'ora esatta, e lo faccio alle 7:59.
Insomma, per quanto non riesca a spiegarmelo, da quando sono entrato in bagno a quando ne sono usciti dovrebbero essere passati tre quarti d'ora.
Tuttora non riesco a trovare una spiegazione plausibile.

lunedì 24 novembre 2008

Storia di fantasmi ortigiani

[Non è un racconto: questa è verità, signori]
Mia nonna e mio nonno si erano trasferiti in Ortigia (dalla casa di Spinagallo) da neanche una settimana.
La casa e il terreno di Spinagallo erano stati venduti ai Campisi, da notare che mio nonno, sofferente di reni, aveva ottimi benefici dall'acqua della trivella di quel terreno, ed aveva chiesto a Campisi il permesso di venire una volta alla settimana per recuperare l'acqua della trivella, a cui il nuovo proprietario aveva risposto semplicemente: "Signor Tuccitto, lei qui è il padrone, e se vuole venire a prendere l'acqua, o la frutta, o ciò di cui avesse bisogno, non deve chiedere il permesso a nessuno: venga e si serva pure!".
Comunque torniamo in Ortigia. In via Mirabella, sotto l'arcata d'ingresso, c'erano diversi appartamenti, e quello laterale era divenuto di proprietà dei miei nonni. Stiamo parlando della meta' degli anni '50 (mio padre, del '41, era appena quindicenne) e di una casa dove i nonni sono rimasti fino al 1963, quando si trasferirono dapprima in una specie di topaia in una laterale del viale Tunisi [dove un piccolo incidente con la macchina del nonno, incastonata nel fango & nello sterro con necessita' di estrarla fuori tirandola con una mula (ai tempi viale Tunisi e le laterali non erano manco asfaltate...) lo fece desistere: "E che dobbiamo fare 'sta camurria ogni mattina?" (-: ], e poi in via Grotta Santa, ultima casa di entrambi.
Via Mirabella ricade nel quartiere ortigiano della Spirduta (Sperduta), ma sull'orlo esatto fra la Spirduta stessa e la Raziedda (Graziella): il quartiere arabo.
E arriviamo proprio più o meno alla seconda settimana da quando la famiglia si è trasferita in quella nuova casa. Quasi tutti i bagagli sono disfatti ma resta ancora qualche valigia, qualche scatolone ed un po' di confusione. Mio zio quella sera è fuori casa, per cui ci sono solo mio nonno, mia nonna (dormono in stanze separate, come era costume negli anni '50) e mio padre.
Mio padre sta dormendo nella sua camera. Sente un rumore, una strana sensazione. E si sveglia. E non appena si sveglia, lo vede.
Vede il Saraceno.
Il gigante è seduto ai piedi del letto, e gli tiene ferme le gambe. Mio padre lo guarda. Lui lo guarda di rimando con occhi iniettati di sangue, ma con distacco.
Mio padre si divincola con difficoltà, si fionda fuori dalla camera da letto e sveglia suo padre (mio nonno). I due ritornano in camera da letto, ma non c'è nessuno. Mio nonno dice a mio padre che sicuramente si è trattato di un incubo. Però mio padre si rende conto (e fa notare al nonno) che le coperte ai piedi del letto sono smosse proprio come se ci fosse stato qualcuno seduto sopra. Mio nonno resta comunque irremovibile: etichetta il fatto come un incubo, e una mera impressione le coperte sul letto.
Si sveglia mia nonna, e anche lei bolla il fatto come un incubo, per cui i tre tornano semplicemente a dormire.
A questo punto passano due giorni. E dopo questi due giorni succede una cosa: mio padre ha sentito parlare del Saraceno che sarebbe stato visto nel tempo anche in altre case della Graziella. Si dice che sia il fantasma di un soldato arabo sepolto nell'ipogeo sotto Ortigia e che sta cercando la sua pace, e ne ha parlato in famiglia. La nonna, timorata di Dio, chiede di poter almeno far ri-benedire la casa dal prelato della chiesa del Carmine. Mio nonno invece bolla questi fatti come inutili superstizioni, tuttavia...

... dopo quel secondo giorno (e dopo aver concesso al prete di ribenedire la casa), dicendo semplicemente che si sentiva più comodo, e tagliando ogni volta il discorso su quel punto, restando irremovibile su quanto accaduto a mio padre (un incubo e nulla più), per i successivi nove anni in cui i miei nonni hanno abitato in via Mirabella, ogni sera mio nonno tirava la rete del letto fuori dalla camera, dormendo in corridoio, e ogni mattina appena svegliato la rimetteva in camera, come se niente fosse. Sistematicamente tutte le sere, pure se era mezzo febbricitante. Mio nonno ha trascorso nove interi e lunghi anni senza mai dormire nella sua camera da letto di via Mirabella.

Io ho girato molto per Ortigia. Ho parlato molto con i più anziani ortigiani, soprattutto i "Razieddari", e sino almeno ai primi anni '80 diversi altri hanno ammesso, senza bisogno di essere imboccati, di aver visto il Saraceno.
Le testimonianze coincidono: è un "gigante" (alto almeno due metri, due possenti spalle muscolose), spesso è stato visto in camera da letto ed impegnato a tenere i piedi di qualcuno di casa, oppure nel corridoio di casa che girava. Corrispondono le descrizioni dei suoi vestiti: un paio di pantaloni ampi e vaporosi, sporchi di sangue. Una casacca sul torace nudo e muscoloso, due possenti braccia, abbronzato, una scimitarra arrugginita tenuta al fianco e infilata ad una specie di cintura a nastro, un turbante ingiallito e macchiato infilato sulla testa.
Corrispondono le descrizioni dei suoi occhi, del suo sguardo che sembra carico d'odio, eppure che da l'impressione di non avercela con la persona che lo sta vedendo.
E corrisponde la descrizione delle sue mani, callose, consumate, sporche. La descrizione della stretta alla base delle caviglie, attraverso le coperte.

Insomma: mio padre (e con buona probabilità anche mio nonno) sono stati anche loro testimoni di questo inspiegabile fenomeno che si unisce alla magia di Ortigia.

sabato 22 novembre 2008

Un orsacchiotto mi protegge, IV

[... e mi diverte! ((-: ]
Io: "Uff, che giornata lavorativa oggi. E il cielo non promette niente di buon... uh? Ah! Mmmm, Lucky, se vieni con me in balcone ti faccio vedere una cosa simpatica: un fenomeno che si chiama Lampi d'Autunno, sono fulmini fra le nuvole molto spettacol..."
Lucky: "AAARGHHHHH!!!!!!!!!!"
Io: "Lucky? Ma che fai sotto il letto? Dai vieni fuori... stai tranquillo... sono solo lampi, non ci sono tuoni... dai stai tranquillo..."
Lu: "Davvero?"
Io: "Non ti fidi del tuo padroncino? Dai che se hai paura stasera ti faccio dormire con me..."
Lu: "Uhmmmmm"
Io: "Tranquillo. In caso di tuoni mi puoi mordere, ti coccolo per un'ora, ti porto con me a lavorare in ufficio, ti faccio fumare il Balmoral che mi sono preso per festeggiare la configurazione di ZoneMinder..."
Lu: "No. Niente sigari, che non fumo... uhm... e che ne dici delle gomme da masticare che stai usando per non fumare?"
Io: "Ma sanno di yogurt andato a male misto a copertone usato... ok: hai vinto: una adesso se vieni fuori (dai, tranquillo, solo se te la senti...) e una domani"

Ci mettiamo per un po' dietro la finestra, quando Lucky e' piu' tranquillo apro anche la finestra e seguiamo un quarto d'ora di lampi e fulmini veramente spettacolari (chissa' se Francesco ha sfoderato la macchina fotografica...), poi rientriamo. Io cerco di guardare un po' di televisione [l'unica cosa che fanno e' "Vulcano - Los Angeles 1997", e oltre a dire che l'ho gia' visto $enne volte, vi dico che se clickate e aprite quella pagina su bloopers vedrete peraltro le molte segnalazioni mie ((-: ], e la connessione adsl fa pure cilecca (GRRRRR), per cui mi limito a scrivere un po' di appunti per il blog, mentre sono impegnato ad accarezzare un piu' tranquillo Lucky [SPAM! Lu: "Gosh!" Io: "Ehi! Non sopporto me stesso quando sparo i palloni di gomma, non ho intenzione di sopportare te!!" Lu: "Ehm, scusa... mi sono anche spaventato da solo..." Io: "Ti sei spav... sei un mito!" (-: ], poi e' il momento di andare a dormire, e il resto e' noia, fino alle cinque di mattina circa, quando si va in scena.

Il sogno comincia con me e mia madre a bordo di un treno, di ritorno dal nord Italia, ma che decidiamo di fermarci per una pausa rinfrancante in una cittadina del centro-nord (no, non ho la piu' pallida idea di che citta' sia, dovrebbe essere qualcosa sugli appennini tosco-emiliani. Il posto non e' molto grande, ed e' una citta' che ha un nome con la parola "Lago" (fate conto, chesso', "Zuzzurellone sul Lago", ma non mi ricordo il nome, so che e' una parola identificante una citta' inesistente, come il Camilleriano 'Vigata'), anche se il "lago" in oggetto e' un invaso artificiale che si estende per circa due km di lunghezza per uno e mezzo di larghezza, con una profondita' media non superiore al metro.
Ci fermiamo in un albergo che ha un solarium con vista su questo benedetto lago, e da cui la vista sulla citta' mi ricorda una specie di Siracusa reinterpretata dalla Disney per il cartone "Sinbad, la leggenda dei sette mari", poi ci facciamo una bella passeggiata in citta', dove incontro un po' di amici di Siracusa, e uno di essi ci invita a casa sua per un caffe' o qualcosa di fresco.
Tecnicamente questa benedetta citta' pur essendo al nord ha una serie di scorci misti fra Trento, Monaco di Baviera e Siracusa, tanto che la casa del mio amico appare in un posto non dissimile da via Servi di Maria qui a Siracusa.
In casa e' pieno di muratori, elettricisti e soprattutto pittori (l'odore del ducotone e di altri prodotti murali riempie la casa e mi satura le narici), per cui ce ne andiamo in giardino dove per prima cosa l'amico ci mette in guardia dal suo cane ben poco socievole, ma che appena si avvicina...
Io: "Ehi! Bello! Vieni qui!"
Am: "No, Mirko, non lo fare che e' ferociss... eeeeeeeeeeeeeeh?????????"
Il cane, un mastino nero, mi arriva praticamente addosso e per prima cosa mi annusa la mano sinistra, per poi gettarsi subito a terra offrendomi il suo torace, e lasciandosi accarezzare e coccolare energicamente.
Am: "Ma come cazzo? Ma quello stronzo a malapena riconosce me! Ma chi spacchio sei, San Francesco?"
Vado avanti per alcuni minuti, poi mi rigiro e mi ritrovo sul letto, con Lucky nella stessa posizione del cane, e la mia mano destra impegnata in egual maniera a solleticargli il pancino.
Io: "Ehi!!! L'hai fatto apposta! Non venirmi a dire che era un sogno normale..."
Lu: "Naaaa. Sei tu che pensi male..."
Io: "Non ho bisogno di pensare male. Dai che questa volta le coccole te le sei meritate, piaciuti i lampi d'autunno ieri sera? O hai avuto paura?"
Lu: "No. Belli... pero' se dovessi guardarli da solo non so se me la sentirei..."
Io: "Tu sei troppo paranoico, prima di essere fifone. Domenica c'e' la festa qua' sotto alla mazzarrona. Perche' non ti guardi i fuochi con Simon mentre io sono giu' a lavorare [auff... ndG]?"
Lu: "Uhm... ci pensero'... ma ora sveglia che e' ora di alzarsi ed andare a lavorare..."
Io: "Si... lo so..."
YAAAAAAAWWNNNNNNNNNNNNNNNN! Le sei meno cinque, mah... lasciamo che questa giornata cominci...

giovedì 20 novembre 2008

Un orsacchiotto mi protegge, III

Sono in viale Teracati, sto camminando sul marciapiede in mezzo ad una popolazione, quando all'improvviso un ragazzetto di forse 22 anni, classico carnesvizzerino mazzarronese [pochi capelli biondi a spazzola, qualche efelide, vestito con una camicia rossa a strisce bianco-argentate (una di quelle cose che trovi al mercato a due euro, ma che lui si sara' preso in qualche boutique lasciandogli dentro almeno 200 euro)], mi si fionda addosso e mi invita a stare piu' attento.
Mi scuso, e mi sposto verso sinistra per andare avanti, ma questo mi mette le mani sulle spalle.
Tizio: "E ti pare che basta questo per scusarsi?"
Io: (lo guardo con curiosita') "Che cosa vuoi, scusa?"
Mi punta e mi sputa in faccia. Non riesco ad evitare la scaracchiata, ma subito dopo reagisco (grazie ai ricordi di anni e anni di judo) con un Uki-Goshi da manuale, riuscendo a spiattellare il cretino in terra dopo avergli anche affibbiato un colpo secco col fianco dritto sui gioielli di famiglia, poi mi stendo su di esso e lo tengo bloccato, mentre un'auto della polizia si avvicina. Un segno ai due agenti a bordo della volante, e l'auto si ferma a bordo strada. Ne escono i due agenti (uhm, e' come se uno mi ricordasse qualcuno, sorride quasi come Philippe...) e senza battere ciglio ammanettano il ragazzo che tengo schiacciato in terra e che dal momento in cui ha visto l'auto della polizia non sta piu' emettendo un fiato. Chiedo ad uno dei due agenti se ha bisogno dei miei dati, della denuncia etc., ma lui prima mi invita ad andare nel bagno del bar poco di fronte a noi per darmi una sciacquata. Dopo averlo fatto esco e trovo i due che risalgono in macchina con il ragazzo ora mogio mogio seduto sul sedile posteriore. Uno dei due agenti si prende il mio numero di telefono e il mio nome e mi dice che mi faranno sapere quanto prima. Quindi continuo la mia passeggiata e giungo a casa [in realta' mi vedo continuare la passeggiata e, dopo una specie di "dissolvenza" mi vedo aprire la porta di casa]. C'e' molto disordine a casa, come se fossi appena rientrato da un viaggio: valigie e vestiti un po' dovunque, persino alcuni dei miei orsetti sono ammonticchiati sul divano del salone.
La giornata non e' delle migliori: il cielo e' nuvoloso e promette di piovere. Raggiungo la mia camera da letto, dove la finestra e' aperta e la serranda e' quasi del tutto alzata. Chiudo la finestra e abbasso la serranda, mi giro verso il letto dove noto un po' di carte che so mi servono. Sono accanto a Philippe, Gerhard e Ivano che sono tranquilli sul letto. Ma noto tuttavia che c'e' un po' troppa luce. Mi giro di nuovo indietro e noto che la serranda e' bellamente alzata al punto in cui era prima.
Agrotto le sopracciglia, poi ri-abbasso la serranda, e mi dirigo verso la porta della camera da letto, dal lato opposto rispetto alla finestra.
Di nuovo c'e' molta illuminazione, per cui mi giro nuovamente e vedo ancora la serranda bellamente alzata, come se non l'avessi toccata. Sbuffo, guardo l'ora sapendo di essere in ritardo per andare in questura, e noto che porto un'orologio digitale (che non ho mai visto), il quale fa le 9:20 del mattino. Entro in stanza da letto, ma sento come qualcosa che non va, e mi dirigo fuori a passo svelto. Sul corridoio, in terra davanti alla porta del ripostiglio, c'e' Ivano. Mi chiedo al volo che cosa ci faccia li', per terra, ma capisco che ho bisogno di un'arma, per cui ritorno in salone e annuncio: "Simon, ho bisogno di te!"
Simon mi guarda, in realta' e' lui, ma mi appare di dimensioni superiori persino a Peter. Appena ho prounciato il suo nome ha allargato il suo sorriso, in silenzio. Lo prendo, e ritorno in camera da letto: Ivano e' tornato a dormire sul letto e non appena appoggio Simon sul letto, noto un'oscurita' non indifferente: mi giro e vedo che, finalmente, la serranda e' abbassata; non sento piu' una strana atmosfera intorno a me. ((-:
Mi sveglio: butto un occhio alla proiezione della sveglietta: sono approssimativamente le tre di notte. Arruffo con delicatezza la testolina di Philippe, che sta ronfando sotto il mio braccio, poi mi giro e mi riaddormento.

martedì 18 novembre 2008

Un orsacchiotto mi protegge, II

Sono in balcone, nel balcone-terrazzino dello studio. In piedi, che guardo il panorama; sto fumando una sigaretta. Con me c'e' un ragazzo. Giovane, sui venti anni, lunghi capelli castani lisci, occhi azzurri chiarissimi, porta il pizzetto. Mi guarda, in silenzio. Do l'ultima boccata alla sigaretta e la schiaccio nel posacenere sul tavolo, poi rientro nello studio, seguito da questo ragazzo.
Non so chi sia, ma mi da un'impressione familiare. Sul divano c'e' mio padre, seduto, che guarda la televisione. Non mi guarda nemmeno, mentre mi avvicino al tavolino, dove c'e' il mio pc portatile aperto ed acceso, pero' scambia uno sguardo d'intesa con il ragazzo dietro di me.
Interrompo il salvaschermo del portatile e metto la mia password, riaprendo la sessione; da quello che vedo davanti a me c'e' Firefox aperto, con l'homepage del blog aperta, ma non appena ho questa fugace visione, giro il desktop virtuale e comincio a digitare tasti su un terminale ssh aperto sul server dell'ufficio. Comincio, ma subito il ragazzo mi interrompe.
Ragazzo: "Ma c'e' copertura bluetooth in questa zona? Si puo' fare qualcosa?"
Lo guardo.
Ragazzo: "Prima ho provato a cercare delle periferiche, ma non trovo nulla a cui agganciarmi..."
Io: "No, scusa. Aspetta, in che senso?"
Ragazzo: "Copertura bluetooth, per allacciarsi ad altri telefoni cellulari, auricolari, computer..."
Io: "Si, ho capito cosa intendi, ma per fare cosa?"
Ragazzo: "Ma poi scusa, c'e' il bluetooth integrato sul tuo portatile?"
Io: "Ho un dongle usb, ma per farci cosa, non ti capisco?"
Si avvicina, guardando lo schermo del portatile.
Ragazzo: "E poi perche' non ti sei installato la Nokia PC Suite? Cosi' magari ti..."
Io: "Ma di che cosa stai parlando, scusa? E che ti frega del mio computer..."
Ragazzo: "Ma che razza di versione di Windows c'e' installata? Non hai Vista?"
Sto per dargli una rispostaccia, ma il portatile, come se avesse sentito e deciso ad agire di sua iniziativa ruota ancora lo schermo virtuale con l'effetto di compiz e mostra uno sfondo nero con un pinguino e la scritta "Linux". Il ragazzo guarda esterrefatto e un tantinello nauseato, pronto a partire per darmi una qualche lezione di informatica di serie Z che non ho richiesto, quando giunge la voce di mio padre dal divano:
Padre: "Lascialo stare, che ne sa molto piu' di te."
E' rivolto al ragazzo, che si allontana da me come se fossi improvvisamente divenuto radioattivo, poi sorride e si avvicina alla libreria.
Chiudo il coperchio del portatile con uno scatto, provocandone l'ibernazione, ed esco nuovamente in balcone perche' ho bisogno di respirare, prima di sbottare in un commentaccio. Sento mio padre che spegne la televisione e si alza. Mi raggiunge in balcone, assieme al ragazzo (che gli si avvicina) e si siede al tavolo, mentre io guardo in direzione della saracinesca del mio ufficio. Sembra mezzogiorno inoltrato: il sole e' alto, ma non c'e' molto caldo, anche se sono vestito in maniche corte.
Mi giro, e guardo mio padre, che mi sorride. Sembra piu' giovane di quanto mi ricordi.
Padre: "E' quasi ora di pranzo, fra poco sara' il caso di preparare qualcosa."
Ragazzo: "Se volete ci penso io a fare un po' di pasta..."
Io: "No. Siamo in casa mia: ci pensiamo noi."
Mentre dicevo quel no, appaiono altri due ragazzetti al balcone. Uno e' alto quasi due metri, e mi guarda con profondi occhi neri; l'altro e' basso, e sorride impercettibilmente. E' a loro due che mi riferisco quando ho detto "noi". Mio padre li guarda con circospezione.
Padre: "E questi due chi sono?"
Ragazzo Basso: "Siamo i cugini di Mirko"
Padre: "Cugini?"
Non rispondono. Il ragazzo basso continua a guardare mio padre e il ragazzo, che li osserva incuriosito, mentre il ragazzo alto mi guarda e mi offre una specie di occhiata d'intesa. E' come se mi avesse fatto l'occhiolino, ma non mi ha schiacciato l'occhio. Sono io che riprendo, indicando anzitutto il ragazzo basso piu' vicino a mio padre, mentre quello alto si avvicina a me.
Io: "Quello e' Lucky, e questo invece e' Peter... Comunque dicevo quando volete prepariamo un piatto di pasta, e vediamo che cosa c'e' in frigo per organizzare un po' di pranzo."
Lucky rientra nello studio, e si mette ad osservare i quadri, come se fosse in attesa di qualcosa, mentre Peter mi si avvicina e mi mormora quasi all'orecchio senza farsi sentire le parole "mano destra".
Guardo distrattamente la mia mano destra: mancano sia l'orologio che l'anello del nonno, repentinamente alzo la mano e mi gratto la testa, sentendo la pelata particolarmente liscia, come se mi fossi rasato quella stessa mattina. Mi rendo conto che manca anche la catenina d'argento al collo, tuttavia noto che dai bottoni aperti della polo che indossa mio padre, appare la croce bianca e azzurra attaccata alla catenina d'argento che ha sempre portato.
Il ragazzo "con" mio padre rientra nello studio, e mio padre si alza e lo segue. Guardo Peter, che sorride, e gli sussurro che ho capito.
Nello studio guardo mio padre, che si e' avvicinato anche lui alla libreria: all'improvviso si avvicina dietro il televisore, si inginocchia e apre lo sportello dello stipo dietro la tv, cominciando a tirare fuori videocassette e scatoloni pieni di lampadine, doppie spine e boiate varie.
Prima ancora che possa chiedergli che sta facendo, e' lui che mi dice:
Padre: "Questa libreria e' sempre in disordine..."
Io: "Hai intenzione di metterla a posto adesso? E' quasi ora di pranzo... Anzi, perche' non andate a vedere in cucina che cosa si puo' preparare?"
Lucky e Peter (mi ero rivolto a loro) escono dalla stanza senza battere ciglio, mentre il ragazzo con gli occhi azzurri si avvicina a mio padre.
Ragazzo: "Perche'? Cosa c'e' di male? Ogni tanto bisogna mettere in ordine..."
Io: "Non mi interessa: non sei piu' in casa tua."
Padre: "Come? Non ti permettere!"
Mio padre gira la testa, mi guarda con un misto di odio e stizza, poi apre una scatola con una serie di pezzi di filo elettrico, prolunghe varie, portalampada e lampadine di ricambio, da cui comincia sistematicamente a togliere tutto il contenuto. Noto che all'interno della scatola c'e' molta polvere, addirittura delle scaglie bianche che sembrano calcinacci.
Io: "Tu non sei mio padre."
Ragazzo: "Non far precipitare le..."
Io: "(Lo interrompo) Tu non sei mio padre, ti ho detto. Tu sei morto dieci anni fa. Ne hai fatti di sbagli, anche con me forse, ma questo non e' ne' il luogo ne' il momento per rimediare. Se fossi veramente mio padre, cercheresti di mettere in ordine le cose storte che ci sono state fra di noi, anziche' questa libreria..."
Sono calmo, ma estremamente risoluto. Mio padre s'interrompe. Mi guarda, seduto per terra e circondato da fili elettrici, lampadine, carte e ciarpame vario. Mi guarda sempre con stizza, e poi parla anche lui con tono risoluto.
Padre: "Tu non sei come ti volevo"
Io: "Oh, gia'. E come mi volevi? E' forse questo ragazzo il figlio che non hai avuto? Studioso, giudizioso, posato, gentile e servizievole... era questo che mi volevi mostrare? Certo, certo..."
Padre: "Ma smettila, lui non c'entra..."
Io: "Chi e' lui? Chi siete voi?"
Padre: "Io sono tuo padre!"
Io: "Smettila. Ti ho detto che sei morto da dieci anni. Morto, non partito per un altro viaggio in Argentina. Un tumore ti ha portato via. E' tutto quello che mi sai dire dopo dieci anni? 'Io sono tuo padre'... mi hai preso per scemo? Bella idea che ti sei fatta di tuo figlio. E chi e' questo ragazzo. Voglio la verita'!"
Mio padre si ammutolisce, e piega la testa verso il basso. Il ragazzo ora comincia a guardarmi dall'alto in basso, e sfodera un tono di sfida eccezionale.
Ragazzo: "Io sono il tuo Angelo Custode."
Io: "Il mio? Forse vorrai dire il *suo*..."
Indico mio padre, a terra in silenzio. Il ragazzo alza le spalle.
Ragazzo: "E se anche fosse? Che cosa puoi farci?"
Io: "Peter, Lucky..."
Ho pronunciato quei due nomi con tono di voce normale (come se parlassi tra me e me, anziche' chiamarli) ma i due ragazzi caracollano dentro lo studio come se avessi messo loro il pepe al cu%o. Mi allontano da mio padre, in direzione del centro della libreria. Lucky si avvicina a mio padre, mentre Peter blocca la porta dello studio che il ragazzo ha appena cercato di raggiungere in un moto di paura.
Io: "Che posso farci? Se tu sei il suo angelo custode, e dato che questo non e' mio padre, lascia che io ti presenti i miei spiriti guida."
Indico i due ragazzi, che sono fermi entrambi a braccia conserte, sorridenti e rilassati come se niente fosse.
Mio padre alza la testa, e' pallido, sembra invecchiato di almeno dieci anni.
Padre: "Per favore, Mirkuccio"
Io: "Piantala, Enzo: sei patetico"
Comincia a singhiozzare.
Padre: "Non mi chiami... papa'?"
Io: "Se fossi veramente mio padre, sapresti appunto che ho sempre chiamato mio padre per nome. Enzo, e non papa'... sei un bugiardo."
Diventa bianco, e comincia a guardarmi con gli occhi spiritati di sangue.
Io: "Non mi fai paura."
Sono calmo, e molto tranquillo. Sto per chiamare Peter, per chiedergli di intervenire, quando noto lo sguardo carico d'odio anche del ragazzo vicino alla porta.
Ma e' una frazione di secondo, poi lo sguardo diventa di sgomento: una possente zampa bianca lo colpisce al centro dello stomaco e lo sbatte con violenza contro la parete a sinistra del divano. Colpisce la parete e rimbalza come un bambolotto finendo per terra. La parete e' macchiata di sangue ed ammaccata vistosamente per la botta tremenda che ha ricevuto. Accanto a me, alla mia sinistra, dove c'era il ragazzo alto, appare un maestoso e gigantesco orso polare, bianco, lungo almeno tre metri ed alto piu' di un metro e mezzo. Sta sulle quattro zampe e mi guarda con una certa soddisfazione.
Mi giro di nuovo verso mio padre, il cui corpo sembra vivere un degrado non dissimile alla malattia che lo ha portato via, ma che avviene ad una velocita' mostruosa. Diventa sempre piu' bianco, sempre piu' emaciato e calvo, ma gli occhi iniettati di sangue continuano a fissarmi, sebbene sembra che delle lacrime cerchino di solcare le sue guance.
Io: "Ti ho detto che non mi fai paura!"
In uno spettacolo mostruoso vedo il volto e le braccia di mio padre consumarsi fino all'osso. Nel giro di una decina di secondi sono davanti ad un teschio con un lembo di carne, e due occhi sorcini iniettati di sangue che mi puntano.
Io: "Non mi credi, eh? Lucky, ci pensi tu?"
A sinistra, accanto al televisore, al posto del ragazzetto basso e sorridente c'e' un orso bruno che deve pesare almeno 200kg, ma che mi guarda sorridente. Poi mi parla.
Lucky: "Si, certo che ci penso io..."
Di mio padre sparisce la pelle e gli occhi sgocciolano via come in una scena splatter da film horror di serie D. Uno scheletro riempie un paio di pantaloni ed una maglietta polo, e muove improvvisamente la mascella rivolgendomi la parola. In realta' piu' che parlarmi, sento una voce nella mia testa, come se fosse telepatia:
Padre: "Come lo hai capito?"
Io: "L'anello del nonno... di tuo padre, se fossi stato il mio vero padre. E se fossi stato il mio vero padre sapresti anche perche' la nonna me lo ha regalato, dato che glielo chiedesti tu. Io non sto portando l'anello del nonno, sebbene non lo tolga neppure per dormire... Ma lo ammetto: non l'ho capito subito. Lo devo ai miei due spiriti guida, che vegliano sempre su di me come molti altri. Questo e' un sogno, e tu e quell'altro s%%%onzo siete lo spirito di un incubo, che i miei orsetti hanno voluto far passare per farci divertire tutti un po'."
Lucky: "Ma forse abbiamo sbagliato: non ci aspettavamo che avrebbe puntato ad attaccare la famiglia per renderti piu' vulnerabile, comunque adesso ci pensiamo noi. Tu svegliati che e' tardi e fra poco devi andare a lavorare."
Una zampa marrone scuro ben fornita di unghie afferra e sbriciola lo scheletro, mentre l'orso polare si avvicina inesorabilmente al ragazzo che sembra dare ancora qualche minimo segno di vita. Mi guardo intorno soddisfatto e poi chiudo gli occhi.

Apro gli occhi. Sono le sei meno venti di mattina, e sono nella mia camera da letto. Sotto il mio braccio sinistro c'e' la calda e morbida figura di Lucky. Accendo la luce, poi mi siedo sul letto.
Guardo Lucky, gli solletico il pancino, mi alzo e infine gratto il mento di Peter, che mi guarda pacioso, seduto sul comodino.
Io: "Questa volta, parola mia, vi siete meritati un premio. Ma roba da lasciare qui un barattolo di miele tutto per voi! Grazie, ragazzi: siete stati semplicemente mitici!" (-:
Ditemi quello che volete: che sono pazzo, che sono infantile, che ho serie carenze affettive... non mi interessa niente. (((-:
Io mi sento tranquillo solo se un orsacchiotto dorme insieme a me, e questa e' l'ennesima prova che ho bisogno di tenere certi spiriti maligni lontani dai miei sogni: ci sono volte che non basta evitare la peperonata con ripieno di bagnacauda a cena per evitare sogni del genere...

domenica 16 novembre 2008

Un orsacchiotto mi protegge, I

E' buio, non vedo le pareti, ma so di essere in una stanza, molto grande.
Sento piangere sommessamente, cammino verso quella direzione, il pianto si fa piu' vicino, comincio a correre.
C'e' un bambino, seduto per terra, lo intravedo nella luce. Sta singhiozzando ma l'avermi visto lo fa calmare un momento.
Mi guarda, poi singhiozza: "Mi avete lasciato da solo."
Io: "Ma no. Io sono qui, e non sono da solo."
B: "No, non e' vero, mi avete abbandonato, non c'e' nessuno, mi hai detto che mi avresti lasciato qui da solo"
Io: "Non e' vero, io non ho detto niente del genere!"
Mi avvicino. Nell'oscurita' vedo poco questo bambino, ma l'impressione che ho e' che non ha colore, come se stessi guardando un film in bianco e nero.
B: "Io sono da solo. Al buio. Ho paura. Perche' mi avete abbandonato qui?"
Io: "Io non ti ho abbandonato, sono qui. Non aver paura."
Mi avvicino, gli tocco la spalla e intanto ravano alla ricerca di un accendino, ma mi rendo conto di essere in pigiama: "Aspettami qui, anzi no, vieni con me."
Cerco di convincerlo ad alzarsi, a seguirmi, ma non vuole venire, non demordo e lo prendo in braccio, lui protesta e continua a piangermi sulla spalla, pero' mi abbraccia mentre ritorno da dove ero venuto.
Io: "Deve essere qui intorno, lo so."
B: "Non e' vero! Non e' vero! Non c'e' nessuno, mi avete lasciato qui, sono da solo, mi hanno lasciato qui! Lo so, me l'hanno detto che e' cosi'!"
Io: "Chi ti ha lasciato qui, da solo?"
Il bambino continua a piangere, io comincio a correre. Incespico e cado sul ginocchio sinistro [un dolore della madonna (ma chi ha detto che nei sogni non si prova dolore?!)], poi mi rialzo e continuo a correre: "Dobbiamo uscire da qui, vedrai: c'e' luce fuori".
Intravedo qualcosa sul fondo della stanza, comincio ad intravedere la parete.
E' un orsacchiotto, uno della mia collezione, o almeno mi sembra. Sembra Lucky, ma anche lui ha un colore ingrigito nell'oscurita'.
Io: "Lucky, sei tu?"
L'orsacchiotto rimane seduto con la schiena contro la parete, immobile, raggelato nell'espressione sorridente di un semplice giocattolo. Mi avvicino lentamente.
Improvvisamente il bambino comincia a colpirmi sul petto, gridando: "Noo! Vai via! Allontanati! Non e' quello che sembra! No! Ti prego! Scappiamo prima che sia troppo tardi!"
C'e' qualcuno. O qualcosa. Non capisco, ma ho paura. Sento che c'e' qualcosa dietro di me, il bambino si divincola e si gira verso di me, poi si gela in un espressione di puro terrore, guardando appunto qualcosa dietro di me, in alto (o qualcosa di *gigantesco* e *terrificante* dietro di me). Non riesco a guardare dietro di me (paura, principalmente, non oso girarmi), ma prendo di nuovo il piccolo e gli grido: "Stai tranquillo, non e' niente!". Mi giro verso destra per afferrare Lucky, ma sulla parete non c'e' piu' nulla.
Io: "Lucky? Ma... Un momento allora questo e' solo un sogno!"
Sento un respiro, caldo ed umido, sul collo, comincio a correre verso sinistra, rasentando la parete. Il bambino continua a piangere, gridandomi di andare piu' veloce.
Io: "Stai tranquillo, non puo' succederti nulla, e' solo un sogno..."
Mi sveglio. Sono nel mio letto. Il bambino e' seduto ai piedi del letto, e sta ancora piangendo. Mi guarda, poi mi dice solo: "Cattivo, mi hai lasciato da solo".
Poi giunge dalla destra qualcosa, qualcosa di grosso, come una mano gigantesca, adunca, sporca e grigia, e lo afferra come se fosse una bambola, tirandolo via.
Mi giro di scatto e vedo solo due fessure rosse che mi guardano nell'oscurita'.

Mi sveglio (di nuovo, ma stavolta sul serio). Faccio un respiro profondo, poi comincio a ravanare intorno a me. Sento che manca qualcosa, ma non riesco a mettere bene a fuoco cosa. La proiezione dell'ora sul tetto segna le 3:50, sono sudato freddo, ma ancora non capisco se sto ancora sognando: mi rendo conto che non sento la zampina di Simon accanto a me. Accendo la luce, mi scopro e resto fermo un istante: l'orsetto non c'e'.
Guardo fuori dal letto e lui, pacioso, e' li sul tappeto, su un fianco.
Lo riprendo, con cautela, guardo il suo musetto tranquillo, poi guardo Lucky che fa capolino dalla mensola, sulla mia destra.
Io: "Eri tu, mi volevi avvertire che qualcosa non quadrava, eh? Mi sono accorto che era un sogno quando non ti ho visto piu'..."
Distribuisco una grattatina alla testa di Lucky, poi un'altra a quella di Simon, spengo nuovamente la luce e mi giro verso il muro, tenendo l'orsetto contro il petto con il braccio destro.
I miei sogni sono dei film. Spiaggie, sentieri e paesi di montagna, citta' sconosciute e persone sconosciute con cui magari condividiamo un pranzo... delle volte che sono con i miei orsetti e giochiamo o facciamo qualcosa assieme ho perso il conto.
Molto raramente ho degli incubi, principalmente legati proprio alla caduta dell'orsetto di compagnia dal letto. Se questa non e' la prova che ognuno dei miei piccoli non ha paura di affrontare e tenere abbondantemente lontani gli spiriti maligni degli incubi, voglio dire...(((((-:

venerdì 14 novembre 2008

Cronaca di un capodanno senza festa

Era il 31 dicembre, ero in vacanza e quella mattina intorno alle nove ero in giro con mio cugino, con la mia macchina, con l'idea di prendere un caffe' caldo (dato che aveva nevicato fino alla sera prima e c'era un freddo incredibile) e poi comprare il giornale e le sigarette prima di tornare a casa.
E' passato tanto tempo, ma ricordo ancora la scena come se ce l'avessi davanti: ero sulla porta della tabaccheria, che uscivo con le sigarette in tasca ed il giornale sotto il braccio, mentre mio cugino mi aspettava in macchina.
Dall'altra parte della strada c'erano due ragazzini; uno dei due teneva in mano una scatola bianca simile a quelle che torreggiavano a lato delle sigarette nella tabaccheria, mentre l'altro aveva nella mano sinistra una bustina di fiammiferi; la mano destra era libera dal guanto, ed arrossata dal freddo, e teneva in mano un grosso petardo giallo.
Fu un solo istante: il primo ragazzo sfrego' la capocchia del petardo contro la bustina di fiammiferi e allontano' la mano per lanciarlo in terra, ma subito ci fu un colpo secco e si alzo' una grossa nuvola di fumo.
E un urlo, e sangue.
Lanciai il giornale in macchina, attraversai la strada di corsa e mi buttai in terra verso il ragazzo, che era disteso supino e gridava, con la faccia sporca di sangue. L'amico fece cadere la scatola e scappo' verso la direzione opposta, mentre mio cugino scendeva dalla macchina ed altre persone si avvicinavano.
Non c'era tempo da perdere: mi sfilai la cravatta e la usai come laccio emostatico, per bloccare la circolazione nel braccio, mentre qualcuno mi passava un asciugamano che gli avvolsi sul braccio. Lo caricammo in macchina e partii di corsa verso il pronto soccorso, non molto lontano, dove giungemmo e lasciammo che il ragazzo, svenuto durante il tragitto, venisse portato d'urgenza in sala operatoria; poco prima di lasciarlo mio cugino gli analizzo' le tasche e, trovato il portafogli, ne estrasse la carta d'identita'.
Sapevamo il suo nome e la sua eta'. Mentre aspettavamo invitai mio cugino ad entrare nella garritta della polizia per stilare il rapporto, l'agente ci fece molte domande, poi telefono' a qualcuno e, dopo qualche minuto, giunsero anche una pattuglia che era stata sul posto ed aveva raccolto la scatola di petardi; giunsero l'amico che era scappato e i genitori del ragazzo.
Erano passate da poco le 10:45 quando il medico usci' dalla sala operatoria, solo per dirci: "si e' salvato, ma abbiamo dovuto amputargli tre dita"; mi sentii male, andai in bagno e vomitai, poi mi sentii incredulo per tutta la settimana.
Pensate che questa storia sia un invenzione?
Che sia li per riempirvi di timore?
Che sia qualcosa di letto in giro su internet?
No: vi sbagliate.
E' successa a Trento, ma non voglio specificare dove e perche': se qualcuno era presente a quella scena, penso che difficilmente la abbia potuta dimenticare.
[...]

mercoledì 12 novembre 2008

Ancora, ancora, ancora.

Il bosco e' silenzioso. Silenzioso e difficile. Ma quello che non ti uccide ti rende piu' forte. Deve renderti piu' forte. Deve essere cosi': non puo' essere altrimenti.
Sei rimasto solo.
No, non e' vero!
Si, sei rimasto solo. Il bosco e' silenzioso. Il rumore della pioggia non ti porta a nulla.
No! Ti ho detto che non e' vero. La pioggia, si. Mi ricordo. Quei giorni in cui la pioggia rendeva difficile la connessione. La corrente elettrica non aiutava mai. Le linee si intasavano.
Ma ora e' difficile. Forse no. Come puoi crederci ancora. Ascolta la CB: nessun rumore. Neppure la piu' bassa forma di QRM, la banda AM e' pulita come il rumore della pioggia sul bosco. Neppure li' e' rimasto piu' nessuno.
No, non e' vero... non puo' essere vero. Lo so.
Lo so. Hai scritto il mio indirizzo IP dappertutto. Ho fatto broadcast, ho inciso le pietre sul mio stesso cammino.
172.29.65.44
Lo hai gridato. Lo hai gridato ai quattro venti. Finche' ogni numero ha perso di significato. Finche' ogni sillaba, ogni singolo fiato non ha avuto piu' senso.
E continuero'. Continuero' ancora. Centosettantadue punto ventinove punto sessantacinque punto quarantaquattro, il mio nodo e' sempre on-line.
Anche tu sei sempre on-line, anche se ti allontani. Il tuo telefono funziona?
Si, le batterie sono cariche ed il tono di linea non manca.
Non ha senso.
Anche la corrente non manca mai.
Non ha senso: sei elettricamente e telefonicamente autonomo.
Smettila!
Perche'?
Smettila, ti ho detto di smetterla.
Sei solo. Senti la mancanza degli uomini, delle donne, degli animali... degli insetti.
Rosetta. La puledra del vicino. Te la ricordi, vero? Ogni sera in cui potevi passeggiare fino al limitare delle stalle. Lei che non si faceva toccare da nessuno. Lei che era la cavallina piu' timida e impaurita della vallata.
Si. Ma non temeva le delicate carezze sul muso bianco chiazzato di marrone.
E sotto il muso, sulla gola. Si, ricordi? Stendeva il collo in avanti come un felino e si lasciava accarezzare la gola.
Una gola da tagliare con un rasoio. Smettila. No, devo smetterla. Si, dovevo tagliarla, quella gola. Forse almeno lei non avrebbe sofferto. Anche altri hanno sofferto. Tutti hanno sofferto. Anche io sto soffrendo. E una donna, un uomo, un vicino.
Una sigaretta, magari. Quella calda sensazione del fumo che ti scende lungo la gola, quella opprimente sensazione di catarro appena svegliato la mattina. Quelle sensazioni, si: quelle sensazioni che non ci sono piu'.
E il rumore della pioggia, si. Anche quello mi ricordo. Non hai bisogno di ricordarlo: sta piovendo.
Gia', e poi smettera', ma solo fino a quando non ricomincera' a piovere ancora.
E lo schermo del computer, l'avviamento del sistema operativo, e la gente, e le stelle.
Il buio di un cielo senza stelle. No, non e' vero: smettila. Ci sono le stelle: le ho viste. Ho visto ancora il gran carro, e le sette stelle mi hanno guardato dall'alto. Ci hanno guardato. Hanno visto me, ma hanno visto anche gli altri.
Ma forse non ci sono gli altri. Forse non ci sono neanche io. Forse non c'e' piu' neanche il pianeta.
Sei tu che l'hai voluto.
Magari un'invasione di astronavi scintillanti nel cielo buio sarebbe stata meglio, magari una malattia sconosciuta, magari un rasoio che tagliava la gola di Rosetta.
Smettila, non voglio parlarne.
Magari un cane. Un fedele amico da accarezzare sotto la gola.
Ti ho detto che non voglio parlarne.
E che cosa farai? Griderai al vento? Centosettantadue, punto ventinove, punto sessantacinque, punto quarantaquattro. Ti ho gia' detto che sono on-line?
Sono sempre on-line.
Ma a che pro?
La banda AM e' silenziosa. Il bosco e' silenzioso. Il cielo e' silenzioso. No il cielo piove, ma sopra le nuvole e' silenzioso.
Il mondo e' silenzioso. Anche io sono silenzioso.
I tuoi abiti sono strappati, lisi, consumati e sporchi.
Ti mancano degli abiti puliti.
Magari non tuoi. Magari in qualche casa e' rimasto qualcosa da poter accapparrare. Magari qualche puledrina a cui tagliare la gola. Ti ho detto che non voglio parlarne. Ma i cavalli non si vestono. E i cavalieri sono gentili. Io sono un chierico guerriero. La mia maledizione spargera' gli atomi del tuo corpo in terreni lontani ampi migliaia e migliaia di acri. Sono molto bravo con gli incantesimi, sai?
Sono molto bravo anche con il computer, e il mio nodo e' sempre on line.
172.29.65.44 e' il mio indirizzo, ed e' li', che aspetta. Anche il mio telefono e' li', e aspetta anche lui.
Anche tu aspetti.
Smettila.
Smettila.
Il bosco nasconde molte insidie, nel silenzio. Nel buio.
Non ho paura del buio.
Ma hai paura del silenzio.
Si.
No. Ho rispetto del silenzio. Ho paura del buio. Anzi no. Ho rispetto del buio, ho paura del silenzio.
Dal bosco salteranno fuori spiriti maligni che cavalcheranno puledre immacolate, uccidendo gli uomini liberi. E scaglieranno maledizioni sulla rete. E la rete non funzionera' piu'. E non funzionera' piu' il CB, non funzionera' piu' il telefono. Anche la tua mente vacillera'.
Non senti questo rumore?
Si. E' la pioggia che cade fitta sugli alberi del bosco.
E' il gruppo di generazione elettrica che fa il suo dovere. E' l'antenna della rete senza fili. La rete e la CB fanno il giro del mondo.
Centosettantadue, ventinove, sessantacinque e quarantaquattro. Sommali e saprai quante volte queste parole hanno fatto il giro del mondo. Moltiplicali e saprai di quanti parsec si sono allontanate dall'universo.
Il bosco e' silenzioso. Ma vuoi affrontarlo. Piove... chi ha da andar, vada, che l'acqua non e' spada!
Voglio le coccole. Voglio qualcuno. Voglio qualcosa. Voglio solo qualcuno.
Guarda quei lampi sopra il bosco.
E' il ritorno degli uomini liberi, e' la festa per il ritorno dell'umanita': sono fuochi d'artificio che annunciano felicita'. E sono fulmini che saettano fra gli alberi del bosco, per rompere la monotonia della pioggia.
La pioggia non e' monotona.
Aspetta.
Smettila.
Forse senti il rumore di un cavallo che si avvicina? Ti ho detto di smetterla: non voglio parlarne, e se non la smetti...
La rinascita della rete passa anche dalla pioggia. Dalla CB, dalla radio, dal wi-fi, dal wi-max. Che belle parole piene. Sei un mago del computer, ma con cui parlerai di protocolli di rete?
Alle margherite.
A chi ripeterai incessantemente quel centosettantadue punto ventinove punto sessantacinque punto quarantaquattro che ti rimbomba nella testa?
Alle margherite.
E per quanto tempo? Alle margherite. Non mi stai ascoltando. Non ti sto ascoltando. Non c'e' niente oltre il rumore della pioggia. Non c'e' nessun telefono, non c'e' nessun computer, non c'e' nessun uomo. Non c'e' piu' nulla. Non ci sono neppure puledre sgozzate.
Ti ho detto di smetterla. Subito.
Smetterla di piovere? Smetterla di pronunciare quegli inutili quattro numeri che ormai saturano le strade, le pietre miliari, le rocce da qui a molto lontano?
Continua, allora. Continua ancora, e ancora, e ancora fino all'infinito.
Qualcuno prima o poi si trovera'. Devi smetterla.
Smetterla di sperare. Il bosco e' silenzioso. Nessuno tornera'. Nessuno verra'. Nessuno chiamera'. Nessuno sei tu, nessuno sono io, nessuno e' l'io, nessuno e' nessuno.
Smettila! Non ti sopporto!
Che cosa vuoi fare? Accarezzarmi il muso come con Rosetta? Fare l'amore con me come quando avevi una moglie? Giochiamo a carte, bevendoci una birra, in ricordo dei vecchi tempi. Accendiamo la tv via cavo, e vedrai come ci sono piu' di cento canali di pioggia. E di silenzio.
Uscirai sotto la pioggia. Rimarrai a guardare il bosco. E sentiro' la pioggia battere sulla mia testa, sulle mie spalle, e sui miei timpani.
Stanno arrivando!
Non e' vero, e lo sai. Non c'e' nessuno. Nessuno sta arrivando.
Lo sai. Lo hai sempre saputo. Sarebbe successo prima o poi, e non puoi dire che non te lo aspettavi. Perche' lo volevi. No! Smettila! Basta!
Non ti sopporto piu'!
Centosettantadue, punto ventinove, punto sessantacinque, punto quarantaquattro, il mio nodo e' on-line, il mio server VoIP e' on-line, la mia stessa vita e' on-line. Ditemi quando potro' sapere che cosa mi resta al di fuori della pioggia.
Che sta finendo.
Smettila. Qualcuno ha tagliato la gola al dio della pioggia. Smettila, ti ho detto.
Non voglio parlarne. No, anzi, non voglio parlare. E' tardi. Ora che smette di piovere il bosco e' ancora piu' silenzioso. Ed il cielo e' sempre piu' buio.
Non e' vero. Guarda: quella e' una fetta di luna, e quella e' una stella. Anzi no, e' Venere. O Marte, o una stella solitaria.
Una nave spaziale intergalattica che viene a prenderti, per portarti in un mondo completamente diverso da questo, dove essere completamente solo. Solo tu. Solo tua moglie, il tuo vicino, il resto del mondo, Rosetta, chi ti manca ancora?
Mi manchi tu. O magari, non saprei, un peluche.
Molto piu' sopportabile di te, di certo. E di questo maledetto computer che sta di nuovo macinando dati senza motivo. Questo hard disk e' inaffidabile.
Basta! Smettila! Non ne posso piu'! Il bosco e' silenzioso! E faro' rumore! Centosettantadue! Punto ventinove! Punto sessantacinque! Punto quarantaquattro! Voglio morire! Voglio morire da solo in un mondo silenzioso e abbandonato! Voglio morire nel bosco intorno a questa casa! Voglio morire con il rumore di fondo del CB che mi ricorda la pioggia che non c'e' piu'! Basta!

"Signore, il ping si e' interrotto improvvisamente mentre cercavamo di aprire una sessione telnet con la bbs, e non risponde piu' nessuna porta." il soldato era davanti al monitor e sembrava stupefatto.
"Avete provato anche sulle altre frequenze?", chiese l'ufficiale che sembrava invecchiare a vista d'occhio ogni secondo che passava.
"Il QRM sta tornando lentamente, e stiamo verificando l'esistenza di altri segnali visivi o tecnologici."
"Qual'era l'indirizzo IP di quella bbs?"
"Dunque... 172.29.65.44"
"Punto ventinove... avete chiamato sul canale 29 CB?"
"Uhm... no, signore. Ci provo subito!"; il giovane soldato prese dalla sua sinistra il mike arruginito, mentre la mano destra ruotava una manopola dentata finche' accanto allo schermo del computer non comparve un 29 a cifre led tremolanti, poi parlo': "Attenzione binario 29, attenzione binario 29: qui e' la stazione tecnica Orionis. Se c'e' qualcuno che riesce a copiarci, risponda, per favore. E' della massima importanza. C'e' rimasto ancora qualcuno sul pianeta? Cambio."
Solo un lieve tremito nel QRM di fondo fu l'unica risposta. Il giovane soldato intanto con la mano libera non smetteva di digitare comandi e test di rete in direzione di quell'unico indirizzo IP di cui erano presenti tracce dovunque.
"Attenzione binario 29: qui e' la stazione tecnica Orionis. Se qualcuno mi copia, mi risponda. E' importante! Cambio."
Il rumore dei tasti battuti sulla tastiera del computer fu la risposta piu' eloquente della frequenza AM: "Attenzione binario 29: qui e' la stazione tecnica Orionis. Sysop della bbs su 172.29, se mi copi vieni avanti. Dobbiamo sapere se e' sopravvissuto qualcuno... cambio... Inutile signore. Deve essere stato l'ultimo nodo di rete che disponeva di un qualche generatore."
"Maledizione. Ma deve esserci rimasto qualcuno. Non puo' essere rimasto solo il bosco!"
"Il bosco e' silenzioso, signore".

lunedì 10 novembre 2008

Katherine, una ragazza speciale

L'amore. L'amore e' una forza immensa, che ti fa percorrere strade, scalare le montagne, che scuote tutto il tuo corpo, che muta il tuo spirito...
Si potrebbe mai fare del male, per amore?

Visto il successo della precedente avventura, dovuto soprattutto agli sms di apprezzamento (ma che c'avete paura a clickare su "invia un commento"?), ma soprattutto visto che sono riuscito a ritrovarla (e questa volta nemmeno l'internet archive mi ha dato una mano: c'e' voluta la mano santa della sbobinatura di diversi backup), voglio condividere con voi quanto ho partorito in un ora davanti al pc con poca voglia di programmare.
Era il 10 ottobre 1998, era sera, c'era maltempo e mi sentivo stanco.
Eppure...
Immaginate di leggere una pagina estratta dal diario di un giovane innamorato. Ditemi un po' cosa ne pensate.


Kat (Katherine)
(Di Grizzly)
Se solo si potesse osservare la gente, dentro, si scoprirebbero tante cose, tantissime cose che non sempre traspaiono fuori.
All'esterno c'e' un mondo, ma all'interno tantissimi altri fanno la loro apparizione; chissa' quante altre cose sono nascoste dietro una corteccia esterna, e chissa' quanti sono realmente in grado di vederle, di sentirle, di accorgersene.
Vigilia di natale, una gelida sera di pioggia. Erano quasi le undici.
Nel mondo esistono tante cose, tanti oggetti, tante persone, tanti sentimenti, esiste il caldo, esiste il freddo; esiste il buio, esiste la luce.
Seduto di fronte alla scrivania, la osservavo.
Sorridevo, e lei sapeva che sorridevo, e sorrideva anche lei.
La sua camera da letto poteva sembrare scarna, ma invece era molto ricca.
Candide pareti avvolgevano i suoi sogni, pochi mobili lasciavano trovarsi nel momento del bisogno, con i loro angoli arrotondati raddolcivano la loro esistenza; una oscura scrivania in stile da ufficio, di legno con un disegno di meta' anni 50 si stagliava maestosa in mezzo a quell'opprimente e seducente pallore.
Quello era il suo rifugio, il suo piccolo mondo sicuro, lontano dal pericoloso e sconosciuto mondo esterno. Il suo rifugio, piu' vicino al suo cuore.
Dolci capelli dorati si sparpagliavano sul cuscino, il suo viso illuminato dal lampadario assumeva una radiosita' simile a quella della luna.
Mi piaceva, molto.
I suoi bellissimi occhi azzurri si nascondevano debolmente nella penombra delle lenti scure degli occhiali, occhiali che si armonizzavano perfettamente sul suo viso, quasi come una naturale continuazione di esso.
La conoscevo da due anni, ormai. Forse non sono mai stato una persona dolce, e nemmeno lei, o forse siamo sempre stati tutti e due molto speciali, ma di certo eravamo (e siamo tuttora) molto simili.
La sua infanzia non le aveva concesso molto, e purtroppo la sua famiglia non e' che cercasse di fare il possibile per migliorare qualcosa. E' arrivata a 25 anni tutta da sola, e la ammiro per questo, ma l'amore e' un sentimento complicato.
Io ascoltavo i suoi sogni, la proteggevo dalle sue paure e le parlavo delle mie, e per quanto di solito mi senta a disagio a rendermi tenero e malleabile, con lei mi riusciva benissimo, come se fosse naturale comportarsi con lei cosi' e con gli altri in qualche altro modo.
Moses, il mio gatto (un magnifico persiano nero), non si era mai avvicinato a nessuno; persino fra me e lui c'era un rapporto di amicizia molto particolare, e quando portai Kat a casa, fu la prima volta che lo vidi avvicinarsi spontaneamente ad una persona e farsi accarezzare.
Gli animali sono molto piu' intelligenti dell'uomo, sicuramente.
E a lei era piaciuto molto, accarezzare Moses. Aveva conosciuto un sentimento nuovo, un qualcosa che prima non aveva forse mai provato, qualcosa che le piaceva molto, anche se forse lo temeva.
Avevo notato una cosa, piu' di una volta, a cui non avevo dato un alto valore, anche se mi lasciava una strana sensazione di vuoto: c'era qualcosa che mancava nel suo "rifugio".
Eppure ho sempre tralasciato. Come ho fatto ad essere cosi' stupido?
Il contatto degli oggetti e' molto importante, il tatto e' il senso con cui si prende il mondo in mano, e lo si rigira di qua e di la' per decidere quale parte si vuole usare.
Distesa sul letto, accarezzava l'orsacchiotto che le avevo appena regalato. Era la prima volta che riceveva un peluche in regalo. Quella strana sensazione che mancasse qualcosa nel suo rifugio ora non mi perseguitava piu'...
Avevo iniziato a rendermi conto che forse ne aveva veramente bisogno quando avevo visto il suo sorriso mentre accarezzava Moses, o gia' quando lei teneva la mano sinistra ferma e Moses gli passava sotto accarezzandosi da solo, come fanno molti gatti.
(Ma mai Moses)
Improvvisamente lo scatolotto nero sulla scrivania (mi ricordava una specie di telefonino cellulare) si mise a suonare, un fischio roco e continuo, come un tono di occupato al telefono.
Lei quasi non si scompose: "Premi il tasto in alto a destra... quel maledetto affare sono mesi che devo farlo riparare... meglio il mio piccolo Rym..."
"Piccolo" era difficile da considerarsi: Rym, il suo magnifico pastore tedesco... passava buona parte del tempo a riposare in giardino o ad annusare per svariati minuti gli ospiti; un cane che ben raramente avevo sentito abbiare dietro alle farfalle o ai passanti.
Ho sempre fatto spettacolo con il contenuto delle mie tasche, alche' trovare un cacciavite non fu difficile: "Se vuoi gli posso dare un'occhiatina, ho dietro qualche attrezzo."
Una volta avevo visto Rym e Moses annusarsi a vicenda. Moses non aveva mai visto un cane, e Rym non aveva mai visto un gatto, ed infatti avevano fatto amicizia quasi subito. Lo ripeto: gli animali sono molto piu' intelligenti dell'uomo.
"Questo e' bianco?", mi chiese, alludendo all'orsetto.
Ero intento ad osservare il complicato intreccio di fili e circuiti del beeper, ma alzai lo sguardo verso di lei: "Si'."
Bianco, talvolta bianco fluttuante, come le nuvole. Forse uno dei concetti piu' difficili di questo mondo. Eppure il bianco fluttuante delle nuvole lo conosceva...
"E' morbido... Caldo... E' forse questo il senso del bianco?"
"Moses e' nero, ed e' caldo, morbido... Le pareti della tua stanza sono fredde, dure... e sono bianche. Bianco e nero sono dei colori speciali, e troppo difficili, anche per me..."
Aveva imparato quasi tutti i colori, persino il grigio delle nubi prima e durante il temporale, ma ancora non ero riuscito a farle comprendere la differenza fra il bianco e il nero.
Ma io conoscevo la differenza fra il bianco e il nero? La ho mai saputa? Qualcuno conosce veramente la differenza fra il bianco e il nero?
Finalmente mi districai nel groviglio dello scatolotto, e le dissi: "Okkay, ci sono riuscito, per un bel po' la piantera' di suonare la sveglia nei momenti meno opportuni, pero' cerca di starci attenta e non usarlo come pallina da far rimbalzare in terra."
Lei sbotto' in una risata soffocata, e io richiudendo quell'ammenicolo continuai: "Ora e' tardi, sarebbe ora di andare a dormire..."
Forse bianco e nero non hanno a che vedere con calore o morbidezza...
Si alzo' leggermente sulla schiena: "Si, decisamente: ho sonno. Ma tanto domani possiamo stare anche un po' di piu' a letto, quindi se vuoi possiamo anche continuare a parlare. O fare qualcos'altro... Tu cosa hai deciso per capodanno?"
"Mah, e' stata una giornata pesante. Preferisco trascinarmi fino a li' e finire cosi' questa giornata trascorsa correndo a destra e a manca..."
Mi avvicinai al letto e lei, alzando l'orsetto, disse: "Si, ma questo dove posso lasciarlo?".
Una volta mi disse di aver paura del buio.
Tornato a casa, avevo trascorso almeno due ore piangendo.
"Perche' non lo tieni?... Ti fara' compagnia...".
Abbiamo una passione in comune: la musica di Oldfield, che riesce a farla sognare, anche se si trovava in mezzo alla strada, ad una stazione della metropolitana o in mezzo ad un mercato.
Mise gli occhiali sul comodino, poi si sposto' sotto le coperte, abbracciando l'orsetto.
Mi ispirava un gran tenerezza in quel momento; spensi la luce e le presi la mano sinistra.
Ogni tanto (specie nei primi tempi che la conoscevo) mi aveva stupito, spesso: appena entravo in casa, mi salutava prima ancora che potessi aprire bocca e, se ero con un amico, mi chiedeva subito: "Chi c'e' con te?"...
Avevano cercato di insegnarle il linguaggio della danza, ma non ci erano riusciti; in compenso io ero riuscito ad insegnarle il linguaggio della musica.
E aveva imparato la danza, o piuttosto il mimo, o una specie di via di mezzo; aveva dato una sua interpretazione al senso della musica. Forse a qualcuno non piaceva, poteva sembrare quasi ridicolo, ma a me piaceva molto, e anche a lei, soprattutto a lei.
C'era una cosa che mi legava intensamente a lei, ed era particolare. Lei mi faceva sognare, ma non nel senso comune del sogno, del susseguirsi di immagini, suoni... No. Non era la sensazione del sogno, era piu' il sentimento del sogno, mi sentivo sognatore. Non so come spiegarlo, era una sensazione magnifica, ma allo stesso tempo violenta, come la spinta che ti attacca al sedile quando l'aereo decolla.
Il bianco. Ed il nero.
Non sono sicuro di aver capito esattamente come lei si sentiva quando stava con me, ma ho notato che era quasi sempre in grado di capire i miei sentimenti, il mio stato d'animo.
Ero a letto, ed ero preoccupato, perche' temevo che potesse capire quello che cercavo in tutti i modi di evitare, che ho sempre cercato di evitare.
Lo giuro: ho sempre tentato di non pensarci nemmeno: tutte le volte che mi veniva lontanamente in mente, ripensavo a quando mi aveva detto di aver paura del buio, e la mia mente si bloccava di colpo, come un sasso che cade nel catrame.
Ma non mi riusci' di nascondere le mie preoccupazioni. E subito mi disse: "Cosa c'e'? Perche' sei cosi' teso?".
Cercai, quasi disperatamente, di mascherare la mia preoccupazione: "Niente, stavo ripensando al bianco ed al nero. E' un concetto molto difficile da capire..."
Ma lei mi interruppe, strinse la mia mano e si alzo' sulla schiena: "Io ho capito, invece, e da molto tempo. Ho capito anche che non volevi dirmelo chiaramente, ma stai tranquillo, perche' e' naturale."
"No, io non volevo che..."
Lei continuo', imperterrita, senza ascoltarmi: "Il bianco e' la compagnia che vedi intorno a te, mentre il nero e' la mia profonda solitudine, la sola cosa che vedo intorno a me. La solitudine di cui ho paura. Anche in questo momento..."
Stava piangendo. E anche io. La abbracciai, forte. La amavo. La amo.

sabato 8 novembre 2008

Adesso

E' un'analisi strana di un futuro prossimo regolato dalle norme tecnologiche di questa grande compagnia di telecomunicazioni, che ormai ha stabilito il controllo totale e globale di ogni transazione elettronica privata e pubblica.
In un frammisto di passato e futuro l'unica sicurezza e' data da questo strano ed ambiguo personaggio, consumato dall'orgoglio dei suoi stessi ricordi, ultima pietra miliare prima del grande buio...
C'e' stato un periodo in cui io ho scritto qualcosa, ma e' stato un periodo anteriore sia al libro che al blog. Era un periodo in cui internet cominciava a prendere piede e forma di strumento che rischiava (forse profeticamente) un'esagerato sfruttamento commerciale, troppo prossimo al paradigma "Rete = Web" i cui contenuti sono generati dalle multinazionali.
La convergenza di comunicazioni, telecomunicazioni, contenuti, servizi: tutto quanto passa dalla rete, e la rete e' in mano a pochi.
E' stata una torrida estate, quella del 1997, quando ho scritto questa storia (forse qualcuno se la ricorda pure), ed ora che la ho ritrovata voglio condividerla (nuovamente, era sul mio vecchio sito) con tutti.
[PS: almeno un'altra persona so che la sta rileggendo con una lacrimuccia che gli scende lentamente lungo la guancia. (-: ]


Adesso
(Di Grizzly)
Piove.
Nella stanza c'e' aria viziata, ma l'unica finestra e' incastrata da almeno dieci anni.
E' buio, il letto scomodo.
Cosa mi ricordo? Poco.
Presto mi verranno a prendere, o no? Mi hanno abbandonato? Quanto tempo e' che non vedo nessuno? Giorni, forse. Il buio mi confonde le idee.
Adesso dovrebbe essere notte. Ho sonno, ma il rumore della pioggia mi tiene sveglio.
Un tuono smuove la camera. Stringo la coperta crespa fra le mani.
"Quante volte lo hai gia' fatto?", Francis mi guardo' preoccupato, mentre salivo in macchina.
"Credo una decina, forse di piu', devo dire che non le ho mai contate."
Il rumore della pioggia in crescendo mi ricorda un vecchio disco di Oldfield, il buio e' morbido, amaro ed impalpabile.
Il sapore dell'acetilsalicilico nella cola mi ha lasciato dei segni in bocca, Metaterm e' gia' difficile da configurare da lucidi, figuriamoci in acido.
"Naaa. In trip e' piu' facile, di sicuro"; il rassicurante freddo buio intorno a me.
"Set terminal server as default access point, ma che cazzo e'? Aspetta, fammi guardare l'help, no forse me lo ricordo, dovrebbe essere no, perche' voglio cambiare il mio sistema di accesso in base al network address di chiamata.", lo schermo scuro davanti a me.
Scuro.
Perche' nessuno voleva ascoltarmi? Lo avevo previsto, ma sono stato l'unico a non farsi fregare, il solo.
E' diventato un affare per ricchi, e dire che una volta bastava un cesso per allacciarsi, ora col cesso ci guardi gli stronzi cagati dal riccone per te.
Odioso. La coperta e' vecchia, mi ricorda una specie di pezza di lana dei tempi del campeggio.
"Okkay, adesso penso che ci voglia un buon caffe', magari sopra ci mettiamo anche una sigaretta, e intanto si comincia."
La sensazione del caffe', nero, freddo e amaro mi riporta nella stanza.
Ho bisogno di una sigaretta. Nella tasca della camicia sento il tabacco; e' difficile rollarsi una sigaretta al buio? In fondo non guardo mai la sigaretta mentre la rigiro.
La luce dell'accendino mi ferisce gli occhi, e proietta ombre tremolanti sulle pareti bianche dove si stagliano i pochi mobili.
Un po' di luce filtra da quella maledetta finestra, ogni volta la devo chiudere per bene con una sbarra e pogiarci un libro, ma lo stesso filtra della luce, il risveglio mattutino cosi' non e' dei migliori.
Voglio il buio, il buio profondo. C'e' chi ha paura del buio, io ho paura della luce...
Una volta tenevo sempre dei pacchetti di sigarette nascosti tutto intorno per non restare mai senza.
Mai piu' senza!
Brontolio di temporale sommesso.
Ricordo che una notte, disperso in piena notte sulla provinciale, avevo trovato un accesso (Incredibile, siamo alle tecnologie piu complesse, e poi in campagna c'e' fibra ottica tirata coi paletti di legno, classe '960) e stavo cercando di interfacciarmi; la mia riuscita fu accompagnata (applaudita?) da un carosello di fuochi artificiali qualche kilometro avanti a me: conclusione pagana di qualche antica tradizione religiosa dell'entroterra.
Ed avevo afferrato la ricchezza della rete, in una fresca sensazione di erba tagliata, disteso sul terreno e sotto le stelle.
Una volta la natura era bella.
Ora non c'e' piu la natura. No. C'e'. La pioggia. Sento in lontananza un rumore. Stanno arrivando.
C'e' tanta spazzatura, intorno a me. Butto la sigaretta davanti a me.
Una fugace toccata sotto al cuscino mi fa sentire la rigida struttura della card: nessuno sa che esiste, e per ora nessuno lo deve sapere.
La porta si apre, filtra la luce del giorno davanti a me.
Un altro tuono. La pioggia impazza.
"Francis, te lo ho gia' detto: dopo non ci saranno altre possibilita'. Siamo pronti?"
La sua risposta fulminea mi preoccupa: "Andiamo."
Sono passati tre anni da quando lo ho scoperto. E fino ad ora ho conservato i due segreti. Uno, quello dell'accesso, lo ho svelato a qualcuno, anche se nessuno ha la mia abilita'.
L'altro, la scheda, non lo sa nessuno.
Lo stanzino e' vagamente illuminato da una vecchia lampadina. Giunge lo scroscio sordo del temporale.
"Quando piove e' il momento migliore: bastano le puttanate dei tecnici, che lasciano finestre aperte in centrale, o che si fumano una sigaretta prima di iniziare a considerare anche lontanamente come risolvere il guasto."
Francis ed io non ci parliamo mai, ormai da tempo. Siamo diventati meccanici: io gli do la rete, e lui mi da qualcosa per tirarmi su. Ma non siamo meccanici, no, lo ammetto. C'e' ancora un sorriso d'intesa fra di noi.
Siamo nella casa di campagna in pochi minuti; Robert lancia un pacchetto di sigarette sul tavolo, lo guardo in silenzio, poi ne estraggo una Philip Morris pulita pulita (Cazzo, quanto tempo che non vedo sigarette normali).
Mi ficco in gola parecchio fumo, il calore della sigaretta mi riscalda, in mezzo a tutto questo freddo... a tutta questa pioggia. Vivo solo nella pioggia. La sigaretta mi riscalda l'anima. Poi butto le mani sulla tastiera, giusto il tempo di sbatacchiare qualche tasto a caso.
Che polli, hanno chiuso tutte le vie di accesso normali, ma non hanno toccato neanche una delle decine di backdoor che mi sono lasciato.
Il loro sistema di sicurezza e' piu' bucato di uno scolapasta, ma preferisco non parlare: niente commenti, niente sorrisi sbilenchi... il tempo e' passato. Ed ora ti bustano come niente se non ti pari il culo per bene.
.LOGIN U#=1014 /SERVER /NET=ON /PVT
Ora avranno pane per i loro denti, e crederanno di aver trovato il covo degli hackers cattivi.
"Andiamo", credo che si siano impauriti: mi sono bloccato di botta solo per dire questo, con le mani sollevate dalla tastiera.
Ci dirigiamo in una dispersa localita' di campagna, svariati kilometri piu' a nord della magione dimenticata. Giunti presso una vecchia casa cantoniera, faccio parcheggiare Francis nel magazzino, pronti a scappare.
Ci inerpichiamo a piedi per un sentiero scosceso, in mezzo al vento forte che ha sostituito la pioggia.
E' li', in mezzo al campo coltivato, Francis la vede per la prima volta: "Mio Dio, ma che cazzo e'?"
"L'ultima frontiera, una stazione di rilevamento sismologico in disuso. L'ho scoperta quasi per caso, ma non me la lascio sfuggire."
L'unica cosa che ci aveva accompagnati per oltre venti kilometri era solo il cavo telefonico teso fra i pali, aereo (Classe '960, tanto per cambiare). E lo stesso cavo si inerpicava su per il sentiero, e lo stesso cavo era quello che aveva attirato la mia attenzione, una notte, facendomi incuriosire fino a seguirlo da una punta all'altra, per molti kilometri di terra riarsa...
Francis, guardandomi con circospezione, mi fa incazzare: "Credi che non ci troveranno solo perche' siamo in mezzo alla campagna? Tracceranno la chiamata..."
Io, spazientito: "E andranno laggiu'", puntando in basso, "ad oltre 30 kilometri da qui. A meta' strada c'era la cassetta di derivazione: ho scelto l'azienda agricola piu' lontana, che per ora e' in disuso, ci ho lasciato qualche bel fuoco di paglia con quella puttanata di terminale aperto e poi ho paro paro rigirato i loro due fili con quelli della stazione."
Francis sorrideva soddisfatto: se fossero venuti, li avremmo visti ed avremmo avuto tutto il tempo di scappare.
Era una cosa che avevo visto milioni di volte, quella di tracciare un telefono. Ma il massimo che era successo per non farsi tracciare era di collegare fra di loro alcune cabine del telefono. Perche' nessuno ha mai pensato a giuntarsi ad una linea telefonica, o ad invertire due linee di due posti, in modo che le "forze dell'ordine" puntassero nella casa sbagliata?
Tagliata la piccola rete di recinzione, entro e punto subito dietro l'ingresso del piccolo prefabbricato di metallo.
In un attimo con le tronchesi in mano spello il vecchio doppino da campo, e ficco i due morsetti, mentre Francis tira fuori da dietro il cavo elettrico.
Pogiamo il terminale sul coperchio della botola che conduce al sismografo. Sono pochi istanti, per raggiungere una via diversa.
Francis mi guarda stupefatto mentre estraggo dalla tasca la card. Una vecchia placchetta di plastica ingiallita; sopra ci sono due innoqui numeretti, uno sopra all'altro, laconicamente.
"Se non fosse stato per questo, non ci saremmo mai arrivati."
Il cursore del terminale lampeggia, il mio comando arriva.
.LOGIN U#=00113870 /PUB /PASSWORD=60132
"Eccolo!", l'esclamazione di trionfo mi pervade mentre sul monitor, sotto le decine di frasi senza senso, appare solo un innocuo asterisco.
Il cuore inizia a battermi forte.
Lo digito lentamente, per non commettere errori:
SERVICE /CMD=CLOSE /ACTION=PRITV /NORETURN
Premo con soddisfazione il tasto di invio, per trovarmi davanti solo il laconico messaggio:
THIS WILL CLOSE ALL SATELLITAR AND LAND COMMUNICATIONS
IF YOU ARE REALLY SURE, PLEASE ENTER DEFINITION CODE:
Il cursore lampeggia tranquillo, fermo immobile mentre digito quella maledetta password:
QUESTO E' IL CODICE DI BLOCCO DEFINITIVO DELLE COMUNICAZIONI
Non so se questo sia il codice di default per i routers del sistema multistandard di comunicazione, ma sta di fatto che questa scoperta per me e' stata peggio di quando sul mainframe di Parigi si entrava dando "SYSTEM" ad ogni domanda di identificativo, codice di accesso, nome della libreria e puttanate simili. E si entrava System, mica ospite. Abbiamo buttato giu' Parigi tre volte, una volta sono rimasti isolati una settimana: il simbolo della loro vergogna, ma non se ne erano resi conto.
"Francis, ora tocca a noi"; ci scambiamo un'occhiata d'intesa. Prendo il suo indice con la mia mano, e li avviamo tutti e due a premere una sola volta, in un solo gesto, a due mani, il tasto di invio.
Si.
SELF-DESTRUCT IN PROGRESS... HANG UP
NO CARRIER
Francis si lancia sul cavo della corrente e lo stacca, mentre io con calma tolgo i due coccodrilli e riavvolgo il cavo.
Ci riavviamo, il fedele terminale sotto il mio braccio, Francis con i due mitici cavetti da campeggio.
In lontananza, sulla provinciale, si vedono le luci lampeggianti che corrono verso l'ignara azienda agricola.
Chissa' se si renderanno mai conto di come ho fatto.
Specie adesso, che per parlare devono affacciarsi a gridare dal balcone.

giovedì 6 novembre 2008

Presti-digi-tiri-mancini

Io: "Il punto e' che prima di cominciare, in tasca, ho due cellulari."
Simon: "E perche' due?"
Io: "Uno e' quello buono, uno e' quello farlocco."
Si: "Capisco, ma come fai a capire qual'e' quello buono e quale quello finto?"
Io: "Ci sono diversi escamotage, ad esempio dato che sono affiancati posso tenere quello buono sempre 'a destra' e quello finto 'a sinistra', oppure quello buono lo infilo con l'antenna verso il fondo della tasca, quello finto invece lo tengo con l'antenna verso l'esterno, a seconda del modello."
Si: "E quindi?"
Io: "Dato che siamo in mezzo alla strada, alla vista di molti, la scusa e' che ti mostro il telefonino, ma poi lo rimetto subito in tasca, e poi quando concludiamo la 'transazione' io mi avvicino a te perche' non notino quello che stiamo facendo, ti do il telefonino farlocco e te lo faccio mettere subito in tasca, spiegandoti di allontanarti come se niente fosse e di non prendere subito il telefonino in mano per non fare insospettire nessuno, e poi ci allontaniamo in direzioni diverse, solo che appena giro l'angolo io mi faccio una bella corsetta in direzione di strade & stradine che conosco molto bene, mentre tu - turista - non conosci bene il quartiere."
Si: "E quando poi prendo il telefono dalla tasca..."
Io: "... ti trovi con un cellulare farlocco, magari un accendino guasto oppure il classico telefonino-giocattolo del marocchino che fa solo 'drin-drin, telefonami, ciao' eccetera."
Si: "Ma roba da matti... e per le tre campanelle, invece?"
Io: "Ci vuole solo un po' di allenamento, niente di pazzesco: fai girare la pallina intorno ad ognuna delle tre campanelle, ma dopo averla fatta girare intorno all'ultima, mentre con la mano sinistra abbatti la campanella, con il dito indice della destra indichi la campanella in oggetto, con il medio agganci la pallina e la chiudi nel pugno. La pallina non e' sotto nessuna delle tre campanelle, perche' ce l'hai tu in mano, tutto sta alla bravura del compare che attira i boccaloni a lasciare una banconota sulla campanella 'sicura'."
Si: "E poi allora come fa a saltare fuori la pallina?"
Io: "Il movimento e' inverso: alzo una qualsiasi delle altre campanelle con la mano destra, lasciando contemporaneamente cadere la pallina che appare zompare fuori esattamente da li."
Si: "Certo che bisogna essere degli artisti, eh?"
Io: "Io, sinceramente, proibirei la vendita del gioco delle tre campanelle nei negozi di articoli per prestigiatori, demandandola alla vendita solo dietro rilascio del documento di identita' e di una specifica autorizzazione, ad esempio l'iscrizione ad una associazione di prestigiatori professionisti. Non basta limitarsi a dichiarare che il gioco non deve essere utilizzato a scopo truffaldino, ci deve essere la sicurezza di finire nei guai se si usa quel giochino per truffare la brava gente."
Si: "Hai ragione, sono perfettamente d'accordo, comunque svegliati che e' quasi ora di alzarsi?"
Io: "Eh? Che cos... ah!"

YAAAAAAAAAAAAAWWWNNNNNNNN
Uhm, grumble, le sei meno cinque, cavoli almeno di domenica potevamo ronfare un po' di piu'... sveglia Simon...
Mumble, ma ora chi mi spiega come posso sognare di essere in Piazza Duomo e di spiegare al mio orsacchiotto di peluche come funzionano due tipiche truffe da strada? Ma dove le prendo queste bojate?
[...]

martedì 4 novembre 2008

Parentesi notturna pirotecnica

Io: "Roooooonf, grmmmsssshhh... ma checa%%? Ah, gia'... yaaaawnnnnn! Shimogn... Simognn.... Shtanno sparanyaaaawnnn i fuochi vuoi shalire in terrassa a gualdalli? Grumble..."
Simon: "Rooooonf, Zzzzzzzz"
Io: "Appunto, buonagnotte.... rooooooonffffffff!"

domenica 2 novembre 2008

La conquista della centrale nucleare

Unione Sovietica, fine degli anni '80, so di essere in qualche luogo che richiede l'indipendenza o l'annessione allo stato sovrano, ma a condizione di democrazia e non di dittatura. Per quel che ne so potremmo essere fra il confine ceceno e quello georgiano, ma mi sembra di avere invece l'idea che la situazione sia piu' complessa.
Il paesino, praticamente sul confine, e' di fatto tagliato in due dal fiume che identifica la separazione. Sono diversi anni che il lato sud del paese reclama per l'indipendenza ed il lato nord invece vuole riconquistare quella parte di cittadina. Ma l'apoteosi e' proprio quella notte.
Esco dall'ufficio, sul lato sud della citta', e mi dirigo lentamente verso il confine, dove tutti gli indipendentisti sono diretti, perche' e' la sera dell'attacco finale.
Lavoro come direttore nella centrale nucleare che si trova nella periferia sud della citta' e da corrente a tutto lo stato che c'e' a sud. Conosco il mio omologo che nella centrale nucleare sul lato nord si occupa di produrre energia per tutto il lato nord della citta e per il resto dello stato che c'e' a nord. Lo conosco ma solo per averlo incontrato solo in occasioni ufficiali, eppure mi da sempre l'impressione di una grande malvagita'. Ogni volta che lo ho visto, ho avuto l'impressione del sangue che scorresse da sotto le ruote posteriori della sua auto: una grossa macchina straniera con autista che mi da l'impressione di come deve funzionare la sua centrale nucleare: tutti sfruttati, clima di terrore etc. etc.
Al contrario dell'ufficio della centrale sud, dove tutto e' luminoso, tranquillo.
Arriviamo in prossimita' del fiume, dove ormai tutti quanti sono in attesa. Ci distribuiscono dei fucili, dei mitra AK47, alcune pistole.
Dall'altro lato del ponte si intravede qualche movimento, ma siamo molto dubbiosi.
Giunge il momento dell'attacco, giunge senza che nessuno abbia dato un segnale specifico, ma giunge attraversando il fiume (piu' che altro un rigagnolo d'acqua non piu' profondo di una trentina di centimetri) e gridando, e sparando in direzione del lato nord, e uccidendo soldati e persone comuni. Vedo la gente che mi cade intorno, sento i fischi dei proiettili che mi passano accanto alle orecchie, ma sento anche degli spari che vengono in direzione del ponte.
Risaliamo, blocchiamo gli ultimi soldati: e' fatta. Abbiamo conquistato il lato nord della citta' e nessuno sta piu' opponendo resistenza.
Guardiamo verso il ponte, ma a questo punto restiamo surgelati. Sul ponte i soldati del nord sono riusciti a giungere ad un risultato non differente dal nostro. L'atmosfera e' strana, i soldati di entrambi gli schieramenti gettano i fucili per terra e cominciano ad insultarsi.
"Noi abbiamo conquistato il lato nord, smettetela e desistete!"
"Col cazzo, noi non ci muoviamo di qua, ed e' il vostro turno di desistere!"
Rimaniamo in sospensione per alcuni minuti, finche' la vox populi annuncia che nessuno dei due schieramenti si sarebbe ritirato e che - piuttosto - si sarebbe andati avanti tutti quanti per la propria strada.
Un soldato graduato mi chiede di andare a prendere possesso della centrale nucleare che si trova nella zona nord della citta'. Si e' fatto giorno, sono stanco, infangato, a tratti macchiato di sangue, ma non vedo neanche io altra soluzione per cui mi sciaquo alla meglio sul fiume e poi mi dirigo, a piedi, verso quella direzione.
La centrale e' oscura, al contrario della mia molto piu' luminosa, la gente che si dirige dentro e' molto silenziosa, gli ambienti degli uffici sono cupi, umidi e puzzolenti; mi dirigo verso la reception dove una signora molto anziana e con un paio di occhiali in taglio anni '60 mi squadra per qualche istante prima di sbottare, sorridente: "Ah, si, il direttore mi aveva detto che dovevamo aspettarla questa mattina, ecco, queste sono le chiavi, la stanza dove e' montato il centralino si trova da quella parte, in fondo al..."
Guardo stravolto la chiave arruginita che mi e' stata consegnata, su cui e' apposto un foglietto con scritto a matita "Per il tecnico del centralino telefonico" e subito la rimetto sul tavolo squadrando la signora con espressione contrita, la quale immediatamente smette di spiegare e mi guarda con un misto di odio e preoccupazione e, sembra, con l'intenzione di chiamare la vigilanza.
"Sono il nuovo direttore. Le conviene collaborare."
La fortezza inespugnabile che sembra l'espressione della signora, crolla su se stessa improvvisamente. La signora mi consegna le chiavi e - nel frattempo - arriva una giovanissima ragazza mora, molto carina, e guarda la signora con interesse.
"Accompagna il nuovo direttore nel suo ufficio, per favore."
La giovane sorride, come se fosse una semplice tirocinante assunta una settimana prima, a cui la rotazione del direttore ad ogni settimana non dice nulla, e meno che mai lo dice un direttore che si presenta a lavorare in mimetica mezza infangata.
La giovane mi guida per alcuni corridoi, brevemente, sino al primo piano, dove veniamo raggiunti da una ragazza di qualche anno piu' grande della prima, bionda, molto alta e ben impostata. La nuova ragazza guarda con espressione interrogativa la mia guida, ed ella si limita a rispondere: "Il nuovo direttore".
"Ah"
E ci segue anche lei. Giungiamo di fronte ad una porta ingiallita e consunta, con un cartellino arruginito che dice solo "direzione". Una chiave e' gia' appesa alla porta, un altro cartellino con una nota a matita: "Direzione - Doppia chiave".
"Non so cosa sia questa storia, ma questa storia finisce immediatamente. Chiami la signora della reception perche' voglio sapere esattamente come va con queste dannate chiavi, e poi voglio contattare un fabbro affinche' tutte le serrature vengano sostituite, quella della direzione per prima, e successivamente faremo dei lavori di ripristino dell'edificio, e adesso vediamo com'e' combinata la situazione qua dentro."
Apro la porta ed entro in una stanza molto grande, larga circa cinque metri e lunga almeno una decina, praticamente spoglia, con in fondo due ampie finestre a mezza parete (alte circa un metro, un metro e venti, ma poste a circa 30cm da terra), con le persiane ben chiuse ed i vetri letteralmente grondanti di polvere e macchie di pittura murale stantia.
Nella stanza di fatto ci sono solo tre scrivanie. Una e' molto vicina alla porta d'ingresso, posta in maniera tale che chi entra si trovi alle spalle della prima segretaria. L'altra e' posta sulla sinistra subito li' vicino. Di fronte. Sempre con le spalle alla porta, e la terza di fronte alle due, con le spalle alla finestra. Ci sono almeno cinque metri di stanza vuota fino alla finestra, la luce dei neon sparge un chiarore innaturale. Non ci sono carte, penne, macchine da scrivere. Non c'e' nulla, solo un vecchio telefono consunto sull'ultima scrivania.
"A quanto pare sapevano che doveva succedere qualcosa e si sono premuniti"
"Eh, no, signore: lavoriamo normalmente cosi'"
E' la ragazza bionda che ha parlato, mi indica la cartelletta con la penna che tiene in mano, la ragazza mora si limita ad annuire.
"Beh, e da oggi le cose cambiano". Mi dirigo alla finestra e alzo a fatica le due persiane, un po' di luce filtra dai vetri luridi. "Allora, chiamate la signora, e poi fate venire qui quelli delle pulizie, voglio vedere questi vetri brillare, tu" rivolgendomi alla bionda, "dammi una mano: spostiamo queste scrivanie. Una di fronte all'altra, qui, con la finestra sul lato, quella scrivania poi la mettiamo qui accanto. E poi faremo venire qualcuno a mettere un armadio e delle cassettiere; e entro oggi voglio un imbianchino che dia una regolata a queste parete bisunte, e qualche pianta, non ho intenzione di lavorare in un loculo"
Ho capito che l'abitudine e' stata di lavorare con un mostro e di venire comandati a bacchetta: non e' il caso di dimostrarsi troppo accondiscendenti, per il momento: voglio far capire chi e' che comanda.
Dopo alcuni minuti si avvicina la signora e comincio una lunga dissertazione sulla chiave che era attaccata alla porta, le ordino di chiamare con urgenza il fabbro e occuparsi delle serrature mentre due ragazzi delle pulizie stanno facendo del loro meglio per scrostare le finestre. Dopo un quarto d'ora sono davanti alla finestra pulita mentre le due ragazze stanno prendendo posto alle loro scrivanie. Alcuni altri dipendenti stanno montando un paio di cassettiere ed un armadio di metallo, verde, consunto come molte altre cose qui dentro, quando intravedo dalla strada un'auto che si avvicina.
Pioviggina, e le strade sono bagnate, e l'impressione che dietro la macchina le pozzanghere siano macchiate di rosso e' sempre presente, ma dietro di essa ci sono due fuoristrada dei soldati della resistenza, tutti armati, per cui mi scompongono non piu' di tanto. Con essi c'e' il graduato che mi ha mandato qui.
Scendo alla reception, ed incontro il mio ex collega che mi annuncia solamente: "Ci siete riusciti, i politici si sono accordati solo adesso. Siamo un'unica realta'. Lo stato del sud ha avuto la meglio, si e' deciso che cosa e' meglio per tutti, ed avete anche rilevato questa centrale. Quel che e' meglio per tutti, non credi, amico?"
Mi guarda. Basso, tarchiato, con pochissimi capelli grigi, un sorriso sbilenco.
"Non sono un tuo amico."
"Basta cosi'. Hai due giorni per fare le valigie e sparire da qui. Considerati in esilio." E' il graduato che ha parlato, con l'ex direttore, che con un espressione contrita risale in macchina e riparte in direzione della citta'. Non vedo piu' sangue dietro la sua macchina. Che sia finita? Nel frattempo si avvicina un signore.
"Scusate, sono il tecnico del centralino, ho saputo che c'e' un guasto da riparare"
"Si", intervengo io, "un guasto, un po' di cose da svecchiare e questo impianto da collegare a quello della centrale sud, entro dieci giorni, diciamo i tempi tecnici affinche' siano unite le linee telefoniche. Muoviti, intanto, le chiavi del locale servizi te le fornira' quella signora con gli occhiali la' dietro", dico, indicando dietro di me.

Poi mi stiracchio, il caldo non indifferente mi riporta sul mio letto.
Estraggo Lucky dal mio abbraccio (uff, ce ne vuole per appisolarsi abbrancicato ad un peluche con questo caldo...), mi rigiro e ne osservo gli occhietti neri che svettano nella quasi totale oscurita'.
"Questo mi mancava, Lucky, questo mi mancava proprio..."
Mah, nel frattempo mi ricordo qualche altro particolare del combattimento, come alla "vittoria" in cui alcuni dei soldati e degli uomini dei due schieramenti ritornano dall'uno e dall'altro lato, fra cui un giovane biondo (sui trentacinque) coi capelli a spazzola, che dice di essere uno scacchista (Sento il suo nome e il sogno mi dice che si, e' famoso, ma non e' uno scacchista famoso, per quel che mi ricordi avrebbe potuto dire di chiamarsi Mario Rossi)...
Mah. E' vero: l'orsacchiotto tiene lontani gli spiriti maligni che causano gli incubi, pero' in compenso gli spiriti che riescono a passare sono quelli piu' allucinanti ((-: