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giovedì 22 settembre 2011

Un orsacchiotto mi protegge, XI

Il sentiero che percorro è dannatamente lungo. Così lungo che ormai non riesco più a vedere la strada da cui è partito. Si dipana lungo una vegetazione non molto fitta e un po' di sterpaglie verdi, anche se la temperatura mi lascia presagire una calura non indifferente in arrivo di lì ad un'oretta al massimo.
Ma poi, finalmente, il percorso gira sulla sinistra e un grosso cespuglio di oleandro bianco sembra essere la giusta conclusione a questa strada. Da questo punto comincia la sabbia. Sabbia fine, rosata, pulita e poco movimentata dal vento. Una spiaggia, ma vedo il mare molto in lontananza: ci sono diverse centinaia di metri di sabbia.
La visione in sé è molto rilassante, ma quello che io sento è che devo fare presto, che devo arrivare alla mia destinazione prima che si alzi il sole. Sono vestito con dei jeans, una camicia e le scarpe antinfortunistiche, che mi permettono di camminare velocemente persino sulla sabbia, ma non le sento molto comode.
Mentre comincio ad affrontare la sabbia, tagliando diagonalmente la spiaggia verso sinistra, ma dirigendomi comunque verso il mare, il sole si sta alzando e comincia a farsi sentire addosso, anche se per il momento non sto sudando. È in questo momento che comincio a riflettere sui fatti della serata. A riflettere su come tutto è cominciato: le immagini di una piazza semideserta mi si parano davanti agli occhi.
La piazza è piccola, con una specie di fontana spenta al centro e qualche negozio circostante. Sono seduto al tavolino di un bar su un lato e, dal lato esattamente opposto, c'è un grosso appezzamento di terra incolto e abbandonato, pieno di sterpaglie. Siamo in notte inoltrata (sarà almeno mezzanotte: a parte il bar sono circondato da botteghe chiuse.
Con me ci sono quattro persone: un amico che non vedo da un sacco di tempo, una donna che non conosco e che l'amico mi ha detto essere sua moglie, e due ragazzine che (lo suppongo, ma non me l'ha detto) dovrebbero essere le loro due figlie.
Stiamo discutendo (anche un po' animatamente, devo dire) a proposito del genio della lampada di Aladino. Soprattutto di come vi siano varie interpretazioni della favola tratta da "Mille e una notte" in proposito della presunta regola dei "tre desideri", che non appare nel racconto originale.
Seguo la discussione con poco interesse e molta noia. Poi mi accendo una sigaretta e guardo in direzione del cielo. È a quel punto che lo vedo: è un piccolo punticino azzurro, al centro del cielo, che si muove scendendo verso il basso.
Ma si espande, fino a diventare come un gigantesco fuoco d'artificio che cade verso il basso. E cominciano a notarlo tutte le persone che sono in piazza, e cominciano a zittirsi tutti.
Si avvicina, come se volesse colpire proprio quello squarcio di sterpaglie davanti a noi, e infatti qualcuno comincia a indietreggiare mentre questa sfera azzurra comincia a lasciarsi dietro un'inquietante scia di scintille azzurrognole.
E a questo punto l'amico e la moglie si alzano di scatto. Si comincia a sentire un sibilo sinistro: le due ragazzine appaiono congelate dalla paura e io comincio ad assistere a questa scena come se fossi uno spettatore che la vede in televisione: sento le urla di terrore di tutti quanti, vedo la gente che comincia ad alzarsi e scappare in direzione della strada alla nostra destra. Anche l'amico, e la moglie, e le figlie cominciano a correre.
Mi alzo, con molta calma. Ormai l'oggetto (un diametro di alcune decine di centimetri) è a poche centinaia di metri di altezza. Mi dirigo verso la strada a passo lento, faccio qualche decina di metri e poi mi giro, in tempo per vedere che si abbatte al centro di quel terreno incolto. Un lampo bianco-azzurro molto luminoso mi fa chiudere gli occhi per qualche istante, mentre uno schianto non molto rumoroso si spande tutto intorno. Quando riapro gli occhi la luce è cambiata: adesso ci sono i riflessi gialli e arancio di un mastodontico incendio, e dopo qualche istanto cominciano a risuonare scoppi cupi molto forti: in mezzo alle sterpaglie sta bruciando un bel cespo di canne, sicuramente.
A questo punto mi fermo, e rimango per qualche istante rapito dall'immagine di quell'incendio che cresce. Il fuoco che crepita sempre più forte, le fiamme sempre più alte, tutte immagini che mi lasciano a bocca aperta. Ma poi viene un leggerissimo vento contrario, e con esso il fumo. Per cui mi giro e continuo lungo la strada cui si sono diretti tutti.
E la passeggiata continua, ancora per poco, poi prendo l'auto e mi sposto.
Ritorno quindi sulla spiaggia. Mi sto avvicinando ormai alla linea del mare, e vedo una ampia battigia quasi pianeggiante. Le pochissime onde si infrangono sulla linea della spiaggia spostandosi pigramente in avanti, ma io finalmente vedo anche il punto che sto cercando. È proprio vicino alla battigia, a non più di una ventina di metri da dove mi trovo. Allungo il passo e ormai il sole è quasi del tutto alzato e il colore dell'alba quasi non si vede più.
Davanti a me, semisepolta nella sabbia, c'è una vecchia lampada ad olio: la lampada di Aladino, a quanto pare. Anche perché so che è quella, e perché la prendo e tolgo qualche granello di sabbia dal bordo. Poi col palmo della mano le do una strisciata, e un'altra, e un'altra ancora.
Niente fumo, niente effetti speciali. No, niente di tutto questo. Solo una voce: "Io sono qui per te, padrone: comandami e sarai immediatamente servito".
La voce è alle mie spalle, ma io non mi giro neppure per controllare chi sia, mi limito a rispondere: "Per quanto tempo ti potrò comandare?"
La voce è argentina, dolce. Sembra la voce di un nonnino premuroso: "Fino a quando possiederai la lampada, potrai evocarmi e chiedermi di soddisfare qualsiasi tua esigenza. Hai un solo limite: non potrai chiedermi di farti del male, né di ucciderti. Ma se vorrai potrò assassinare qualcuno per te, mio padrone"
Un brivido mi corre lungo la schiena: "No, nessun omicidio, grazie. Limitiamoci a restare con i piedi per terra, ti prego."
A questo punto la voce si fa un po' più maliziosa: "E allora cosa preferisci? Forse il denaro? Il potere?"
Faccio un respiro profondo, poi comincio a ravanare fra le tasche dei pantaloni e della camicia. Ho l'impressione di indossare una camicia hawaiana, ma ad ogni modo quello che cercavo salta fuori dalla tasca sinistra dei pantaloni: sigarette ed accendino.
Con moltissima calma e misurata attenzione mi accendo una MS Club, poi inspiro profondamente e dopo qualche istante sbuffo nervosamente del fumo: "Direi che potremmo evitare quello che è successo stanotte in piazza."
"Mio signore, questo è impossibile"
"Mi hai detto che l'unico limite è che non puoi farmi del male, il mio desiderio è di evitare quel meteorite di stanotte"
"Ma io sono arrivato questa notte, proprio con quel meteorite."
"Cosa? Il meteorite è caduto a miglia e miglia [sì, ho usato questa unità di misura, ndG] da qui, e adesso l'incendio sarà ancora in corso. Tu sei su questa spiaggia, e sapevo da tempo che eri qui."
Il personaggio si gira, e mi si piazza davanti. Mi aspettavo un mostro gigante in una nuvola di fumo, e invece è un tizio alquanto anonimo in camicia bianca, giacca nera gessata e cravatta nera. Capelli radi, biondissimi, e occhi di un blu non dissimile dal mare che sto guardando.
Mi abbasso, spengo la sigaretta nella sabbia, poi metto il mozzicone fra i lacci delle scarpe. Mi alzo di nuovo e lo guardo, per qualche istante, prima di sbottare con una domanda a bruciapelo: "Quando dovrai andartene via?"
"Non potrò allontanarmi da te sino a quando avrai la mia lampada, ma potrò andarmene via qualora tu lo desiderassi. È questo che vuoi?"
"E posso liberarti? Farti diventare un normale essere umano?"
"Non credo che funzionerebbe. O almeno: probabilmente mi polverizzerei all'istante. Ho più di ventimila anni. Conosci uomini della mia età?"
Il sole è ormai alto, il caldo comincia a farsi sentire.
"Va bene. Non voglio averti chiamato per nulla. Non voglio il potere, né il denaro. Mi basta essere felice. Io non sono felice, o almeno non in questo momento. Puoi rendermi felice?"
Il genio alza il braccio destro: "Naturalmente, padrone".
Schiocca le dita. Mi sento qualcosa fra le braccia. Abbasso lo sguardo, e mi trovo Lucky fra le braccia. Il genio sembra perplesso: "Ah! Tutto qui? Bastava questo per renderti felice, padrone?"
"Sono uno che si accontenta di poco. Grazie, per ora puoi andare".
Abbraccio il cucciolo e guardo il mare, mentre il sole all'improvviso sembra essere partito per il tramonto, anche se non sono passati chiaramente che pochi minuti.
Chiudo gli occhi, e penso: "Ok, è ora di svegliarsi, adesso".

Quando riapro gli occhi la proiezione dell'ora segna le cinque meno cinque di mattina. Accendo la luce, alzo il braccio sinistro e guardo Lucky.
"Adesso tutta la mia felicità è stare in riva al mare abbracciando un orsetto di peluche? Certo che sei particolare, Lucky. Lo sai?"
Però devo dire che mentre ero in quella posizione, mi sentivo felice. Anche questo significa avere un orsetto di compagnia, forse. (-:

mercoledì 21 settembre 2011

La breve storia di Lucky

Già da qualche tempo ho sottolineato alcune peculiarità tipiche di alcuni dei miei orsetti.
Una delle cose che ho evidenziato, in passato, è una presunta paura di Lucky per temporali, fuochi artificiali et similia.
Ma voglio raccontarvi come è cominciato tutto. Lucky è stato il regalo di un cliente (ehm, *una* cliente, per essere precisi) in occasione delle festività natalizie di tempo fa.
In quel periodo ero alquanto incasinato, e passai anche un capodanno schifoso a causa di un pesante raffreddore che mi aveva preso proprio il 31 dicembre, in cui ho dovuto lavorare con un piacevole 38 e passa di febbre, e che conclusi alla sera nell'orario di "cena canonica" (le 21, al più) con un po' di pastina in brodo, un actidue e il letto poco dopo, fino a risvegliarmi la mattina del primo gennaio alle sei, con molto meno mal di testa e la febbre quasi del tutto scesa.
Ma non divaghiamo, e arriviamo a pochi giorni dopo. Poche notti dopo, in effetti. Sarà stata la notte fra il quattro e il cinque gennaio, o quella immediatamente successiva. Erano circa le due e mezza di notte: dormivo, con Philippe sotto il braccio.
Aprii un occhio con circospezione perché un rumore mi aveva ridestato appena, e mentre lo facevo il secondo rumore mi chiarì la cosa: un tuono cupo e molto lungo attirò la mia attenzione, seguito dal rumore di uno scroscio di pioggia non indifferente. Sbuffai, poi mi rigirai sull'altro lato del letto e cercai una posizione comoda. In quel momento ci fu un tuono molto forte ed improvviso, segno di un fulmine caduto veramente vicino. E mi svegliai di soprassalto: non tanto per il tuono, quanto per l'improvvisa caduta di qualcosa sul letto. Ero da solo in casa, e quindi la cosa non mi era piaciuta per niente. Accesi la abat-jour e trovai Lucky a muso in giù sul piumone. Sorrisi, poi tranquillizato lo presi e lo rimisi sulla mensola sopra il letto, quindi spensi la luce e allungai una mano sulla mensola trovando le zampe degli altri cuccioli; pochi secondi dopo sentii nuovamente qualcosa che mi cadeva addosso, ma prima che potessi sbuffare un altro tuono molto forte scoppiò vicino alla casa. Riaccesi la luce e mi ritrovai di nuovo Lucky supino accanto a me.
Mi guardava.
Lo guardai anche io: "Che c'è, piccolo? Hai paura del temporale?"
Presi Philippe da sotto il piumone e lo posizionai delicatamente sulla mensola: "Scusa, Philippe: tu sei un veterano, e qui c'è qualcosa di più urgente...", poi presi Lucky e, dopo aver spento di nuovo la luce, mi girai sul fianco sinistro tenendo il cucciolo fra me e la parete, sotto il piumone. Lo accarezzai delicatamente sulla testa, e sentii pervadermi da una grande sensazione di rilassamento. Rimanemmo così qualche minuto: lo coccolai un po' e intanto sentivo il sonno che ritornava, ma ora mi sembrava di aver fatto la cosa giusta. Ancora adesso consento a Lucky di dormire con me nelle notti di pioggia, e se invece durante il giorno devo uscire e promette di arrivare un fortunale, mi accerto che sia comunque in compagnia degli altri cuccioli, e che la finestra della mia camera sia ben chiusa. Ci tengo ai miei cuccioli, anche per queste piccole cose. So che probabilmente ormai è più tranquillo nelle lunghe notti di pioggia, ma so anche che lo fa apposta a farmi credere di essere ancora terrorizzato: mi sa che gli piace dormire assieme a me mentre fuori tira un fortunale e io mi preoccupo che non tremi di paura (-:

domenica 18 settembre 2011

Questo è il mio orsacchiotto...


Questo è il mio orsacchiotto. Ce ne sono tanti come lui, ma questo è il mio.

Il mio orsacchiotto è il mio migliore amico. È la mia vita. Devo coccolarlo come vorrei essere coccolato io.

Il mio orsacchiotto, senza di me, è inutile. Senza il mio orsacchiotto, io sono inutile. Devo dormire con il mio orsacchiotto. Devo dormire e non preoccuparmi degli spiriti maligni che vogliono farmi venire degli incubi. Lo farò....

Il mio orsacchiotto ed io sappiamo che quel che conta in questa nanna non sono i calci che ci daremo, né le carezze e tantomeno le coccole che ci scambieremo. Sappiamo che riposare è quello che conta. Riposeremo...

Il mio orsacchiotto è umano, come me, poiché è la mia vita. Pertanto, imparerò a conoscerlo come un fratello. Imparerò i suoi punti deboli, i suoi punti di forza, le sue paure, le sue peculiarità, la morbidezza delle sue zampine e del suo pancino. Lo proteggerò anche dalle intemperie e da ciò che potrebbe rovinarlo, come farei con le mie gambe, le mie braccia, gli occhi ed il cuore. Terrò il mio orsacchiotto pulito e spazzolato. Diverremo una sola cosa. Lo diverremo...

PS: grazie per avermi svegliato facendomi gli auguri, Rafael ((-:

giovedì 8 settembre 2011

Lisa Simpson emancipata

Lisa Simpson e famiglia si trasferiscono a vivere qui da noi in Italia, per la precisione in Emilia Romagna, da qualche parte vicino Bologna.
Ma pochi giorni dopo il trasloco, a seguito di una pesante discussione con il padre, scoperto l'ennesimo grave danno compiuto da esso, Lisa scappa di casa decisa a non tornare mai più.
La ragazzina gira raminga per tutta la regione per due settimane poi, quando le ricerche della polizia si fanno più strette, comincia a muoversi sempre di più, arrivando fin quasi in Calabria, per poi salire dalla Puglia, Abruzzo e infine in qualche modo supera il confine e finisce a girare negli stati della ex Jugoslavia e non solo. L'ultimo posto dove finisce è la Lituania: nel frattempo il tempo passa, e mentre da una parte la famiglia continua a cercarla, dall'altra le cose cominciano a rompersi fra Marge e Homer perché i motivi della fuga della bambina cominciano ad essere chiari.
Il tempo passa, Lisa continua a vivere in un incredibile situazione nascosta in Lituania, e passano dieci anni.
A questo punto Bart, ormai ventenne, annuncia al padre che ha deciso di cercare di seguire le tracce della sorella, per tentare di ritrovarla, sicuro e convinto che non può essersi semplicemente volatilizzata. Essendo trascorsi dieci anni dalla sua scomparsa, peraltro, ci sono due condizioni che avvengono: il primo è che la ragazza fra poco sarà maggiorenne, e non più tenuta a rispondere alla propria famiglia; il secondo: Bart ha un lavoro incredibile (è diventato un personaggio famoso in un quartetto di ragazzi che fanno i cantanti e gli attori in una specie di fiction per ragazzi), ed è proprio prendendosi una pausa lavorativa di qualche mese che, grazie a un po' di attrezzatura e soldi messi da parte, può tentare di seguire le tracce della sorella.
E ci riesce, perché riesce a percorrere le stesse strade che ha fatto la giovane ragazzina sia in Italia, sia fino al confine. Determina che le ultime notizie che dovrebbe avere di lei sono in Lituania (soprattutto seguendo una strada: circa due anni prima una ragazza è stata ricoverata in una clinica di Vilnius, registrata sotto il nome di Gomi Lahus, non ben identificata ma che porta uno strano riferimento a Milhouse Van Houten).
Bart finisce una sera a girare in incognito in una grossa città lituana, quando viene riconosciuto da alcuni giovanissimi fan dei suoi film che portano un assedio all'albergo ove si sta appoggiando assieme a un collaboratore che lo aiuta con la lingua.
I due un giorno scappano alla chetichella dall'albergo, e si rifugiano nel paese vicino, dove cercano di non pensare per un momento alla giovane Lisa e vanno in un pub. Uscendo, Bart capisce di essere troppo ubriaco: il compare si è seduto in macchina sul lato passeggero e si è addormentato, mentre lui dopo aver aperto lo sportello fa cadere le chiavi in terra: non è ancora del tutto brillo, ma la stanchezza si fa sentire, e decide perciò di chiudersi in auto e chiamare in qualche modo un taxi per farsi venire a prendere e portare via. Ma a questo punto si inginocchia sotto l'auto per raccogliere le chiavi, e quello che vede attraverso la parte inferiore dell'auto è un paio di sandali rossi di una persona ferma davanti all'auto, dal lato passeggero.
Si alza lentamente e la persona che si trova davanti è sua sorella Lisa. I lineamenti sono cambiati di poco, adesso però è una ragazza ben formata, in jeans e camicetta bianca, con una pettinatura stranissima con i capelli lisci e rossicci portati con una riga a destra. La ragazza sorride per qualche istante, poi con un inglese che risente moltissimo dell'influsso della lingua locale, gli dice "sapevo che quella notizia sui giornali non poteva essere sbagliata".
I due parlano per alcuni minuti. Lisa ha deciso di andare avanti per la sua strada fino in fondo, ha fatto la sua vita, ha avuto degli uomini a cui non si è concessa, ha vissuto per strada e in clandestinità per molto tempo, ha fatto i lavori più disparati ed ha imparato come funziona il mondo, ma soprattutto ha capito di aver finalmente trovato il suo posto, di aver trovato la sua vita e di voler, ora che sta per compiere diciotto anni, rivedere la sua famiglia perché gli è mancata. Il suo compleanno sarà fra due giorni, e solo in quell'occasione consentirà ai genitori e alla sorellina Maggie di poterla vedere. La ragazza se ne va, scomparendo nel buio di un parco vicino al parcheggio dell'auto di Bart mentre questi, rinfrancato, sorride per essere riuscito anche lui, alla fine, nel suo scopo.

Il suono della sveglia mi interrompe proprio mentre Bart prende il cellulare per chiamare un Taxi. Nel buio della camera mi rivolgo a Lucky, che sento ancora sotto il braccio: "Te l'ho già detto che questi sogni da sceneggiatore mi divertono molto? Sì? Bene, allora!". E gli accarezzo la schiena mentre spengo la sveglia: la giornata si avvia a cominciare ((-:

mercoledì 7 settembre 2011

La fuga a Catania

Siracusa, in compagnia di alcuni amici (anche se so che conosco tutti, non una sola faccia mi dice qualcosa). Dovrebbe essere una specie di rimpatriata dei tempi di scuola, o qualcosa del genere: è sabato sera e siamo in un pub fuori Ortigia. Sono in piedi accanto al tavolo cui sono seduti tutti quanti, poi mentre tutti discutono mi allontano e mi avvicino al bancone. A un ragazzo in maniche corte e con le braccia ricoperte di tatuaggi chiedo una birra Corona liscia (senza sale & limone), e questo attira l'attenzione di una ragazza seduta al banco, alla mia destra.
È carina: una giovane brunetta sulla trentina con gli occhi color nocciola e un paio d'occhiali bordati di nero che non le danno la classica aria da intellettuale. Ha l'apparecchio ai denti e un bicchiere di un non ben identificato coctail davanti al naso.
Lei: "Questa è la prima volta che vedo qualcuno prendersi una Corona liscia..."
Mi giro, le sorrido e spiego: "Un amico siciliano anni fa si è trasferito in Messico. Quando ha spiegato loro che la birra Corona in Europa la beviamo così, i messicani si sono messi a ridere."
Da questo punto attacchiamo un po' bottone: io parlo del mio lavoro, lei mi parla del suo e sembra che ci sia una certa sintonia d'interessi (e di un certo odio per il lavoro a contatto col pubblico), e la discussione va avanti per diversi minuti. Ci scambiamo persino i numeri di telefono, ma dopo pochi minuti, mentre finisco la birra, appare un gruppetto di altre tre ragazze (mi dice che sono sue amiche), e che cercano di tirarsela indietro.
A questo punto la ragazza (ecco, non mi ricordo il suo nome: splendido!) comincia ad apparire triste e preoccupata, e mi dice che adesso devono rientrare tutti a Catania.
Io: "A Catania? Ma non mi hai detto di lavorare qui? Vivi a Catania?"
C'è qualcosa che non mi convince. Per niente. È come se dovesse tornare a casa da genitori-padroni. Ma non ho molto tempo per farmi questo genere di ragionamenti, poiché nel giro di neanche una decina di minuti lei e il gruppo di amiche sono semplicemente sparite.
Ritorno verso il tavolo degli amici, che prima fanno commenti e prese per i fondelli per il mio "rimorchio", ma poi notando tutti la mia espressione cominciano a porsi in maniera differente sull'argomento. Però la taglio lì: non ho voglia di parlarne.

La mattina dopo, domenica, provo a chiamare la ragazza. Più volte, ma il telefonino le squilla senza alcuna risposta. Sento che c'è qualcosa di troppo strano: non so spiegare cosa sia: più che un'impressione è qualcosa legato all'atmosfera, all'aria che respiro. Sento che c'è qualcosa di sbagliato. All'ora di pranzo sono a casa, seduto a tavola e in compagnia di Francesco. Gli sto esponendo i miei dubbi, che culminano in una decisione: subito dopo pranzo ho intenzione di andare a Catania e cercare di raggiungerla.
Francesco cerca di farmi desistere: anzitutto non ho idea di dove abiti o si trovi, e soprattutto il fatto che sia catanese e con questo alone di mistero potrebbe significare anche qualcosa di brutto o pericoloso, che non posso affrontare così a cuor contento. Ma non voglio sentire discussioni, e subito dopo pranzo salgo in auto e parto, da solo, in direzione di Catania. Faccio il tragitto (che dopo augusta appare sulla vecchia strada e non sull'autostrada) cercando intanto di contattarla telefonicamente, ma come risultato immediato ne ottengo solo squilli a vuoto del telefono. Arrivato più o meno all'altezza del Torero, improvvisamente mi trovo davanti a un gigantesco cantiere con la strada completamente chiusa e ridotta a una specie di mulattiera sterrata e piena di mucchi di materiale di risulta. Sono costretto a lasciare l'auto e procedere a piedi, ma non mi faccio guidare da altro che da una preoccupazione che, essendo vicino a Catania, ora si fa crescente. La strada dopo poche centinaia di metri diventa quasi del tutto impercorribile anche a piedi, e sono costretto a spostarmi sulla destra procedendo lungo un percorso accidentato in mezzo alle sterpaglie. Per quasi due kilometri, addirittura, sono costretto a procedere avanzando lentamente lungo la scogliera.
Poi finalmente la mia caparbietà (o testardaggine?) ottiene la meglio, e finalmente giungo (devo dire non molto stanco, tra l'altro) al porto di Catania. Il sole è basso sull'orizzonte, ma direi che mancano almeno un altro paio d'ore al tramonto (deve essere fine maggio-inizio giugno: ho in mente un'immagine di qualche sparuto gruppetto di persone al mare dalle parti di Agnone Bagni). Comincio a camminare fino ad uscire dal porto ed avvicinarmi alla stazione ferroviaria, quando mi arriva un SMS. È lei, e il messaggio dice solo "Aiutami: corso XXXX" (no, non mi ricordo l'indirizzo esatto adesso, ma è qualcosa al centro di Catania, sulla collina; una strada che parallelamente sulla sinistra dà sull'Etna).
Sono a piedi, e giro ramingo per mezza Catania sino quasi a sentire il male ai piedi, ma poi a forza di chiedere notizie e informazioni in giro, raggiungo l'indirizzo. La strada non è più lunga di un trecento metri, e a poche decine di metri dall'inizio appare il portone di un albergo. Il sole sta per tramontare, per cui entro nell'albergo, lascio una caparra di trenta euro e chiedo di potermi fermare un paio di giorni.
Mi danno una camera al primo piano, ed è bellissima, molto ampia: un letto matrimoniale in fondo e un divano e un tavolo con quattro sedie all'ingresso. Accanto all'ingresso, sulla sinistra, ci sono il bagno e una porta-finestra, con l'invito a fumare in balcone. Estraggo il pacchetto di ms spiegazzato dalla tasca ed esco sul balcone: so che ho già cenato, e scrivo un SMS alla ragazza per dirle che adesso sono in quest'alberghetto, poi provo a chiamarla. Di nuovo il telefono squilla, ma stavolta noto qualcosa: c'è silenzio fuori, e non passano auto sulla strada. Sento una suoneria lontana, come se venisse dal palazzo di fronte. Chiudo la chiamata e s'interrompe la suoneria. Le reinvio un SMS e tendo le orecchie: dopo pochi istanti sento due beep lontani. Riprovo a chiamare e la suoneria riprende, e si spegne non appena chiudo la chiamata. È evidente: abita nel palazzo di fronte. Ma le finestre e i balconi che danno sulla strada, da dove sembra venire la suoneria del cellulare, sono tutte chiuse e scure. So che è tardi (anche se non ho guardato l'orologio) per cui decido di desistere, almeno per il momento. Non c'è molto caldo, però chiudo le imposte ma lascio aperta la porta-finestra. Poi vado a letto, più preoccupato che tranquillo.
Quando mi risveglio sono circa le cinque di mattina, e il sole non si è ancora alzato; per prima cosa vado a farmi la doccia, e quando esco sento del movimento, di fuori. Guardo dalle imposte e noto diverse auto della polizia parcheggiate fuori, al palazzo di fronte. C'è anche un'ambulanza. Mi vesto molto rapidamente, quando bussano alla porta. Apro stupito (ancora non si è alzato il sole) mentre mi sto abbottonando la camicia. Fuori c'è uno degli amici con cui siamo stati nel locale sabato sera. Non identifico l'amico, anche se so che ci conosciamo da molto tempo, e per prima cosa mi fulmina con delle parole tremende: "C'è stato un suicidio di gruppo nel palazzo di fronte. Credo che sia coinvolta anche la tua amichetta, e credo che sia successo già la notte scorsa, e se ne sono accorti solo poco fa. Ma per ora non pensarci e rilassati."
Le sue parole mi colpiscono con la forza di un maglio, e mi butto a sedere su una sedia accanto al tavolo, ma il suo semplice "per ora non pensarci e rilassati" mi risuona nella mente con una dolcezza infinita, e mi fa sentire automaticamente più tranquillo: persino l'intenzione di spostarlo e lanciarmi fuori dall'albergo e davanti al palazzo per vedere cos'è successo è improvvisamente passata. Restiamo fermi, uno di fronte all'altro, per pochi, interminabili, minuti.
Poi lui riprende la parola: "Usciamo in balcone, ci fumiamo una sigaretta..."
Mi trascino fuori sentendomi fuori dal mondo. In realtà avevo capito che doveva essere successo qualcosa di grave: una risposta violenta a tutte le mie preoccupazioni...
Il cielo comincia a illuminarsi, e vediamo arrivare altre due ambulanze, mentre comincia a uscire una lettiga completamente coperta da un lenzuolo bianco. Distolgo lo sguardo e lo porto verso sinistra, notando un'altra porta finestra.
Io: "E quella?"
Amico: "Beh, sarà la finestra della camera accanto, no?"
Io: "No, qua accanto c'è solo il corridoio..."
Mi avvicino, le imposte sono aperte e dentro appare buio, ma appare come una piccola stanzina. Mi appoggio alla finestra e scopro che è aperta. Entro, seguito dall'amico. C'è una stanzina che ha solo questa porta finestra e una finestrella sul lato opposto. Niente porte d'ingresso. Su un lato c'è una libreria che trabocca di vecchi libri, al centro un divano simile a quello che ho in camera, e davanti un tavolino di vetro. Sotto il tavolino e sulla parete opposta è pieno di scatoloni traboccanti di libri ed altre cose. Su uno degli scatoloni fa bella mostra di sé una vecchissima macchina fotografica tipo "instamatic". Ci giriamo attorno per qualche minuto con un sorriso, rivedendo vecchi oggetti storici. Poi finalmente dico all'amico che comunque voglio uscire e vedere che sta succedendo.
Mentre arriviamo davanti alla reception, trovo la signora che mi ha accolto la sera prima e le chiedo di poter lasciare la camera, chiedendo quindi il conto.
La signora, con un sorriso, prende la calcolatrice e calcola il costo della camera, poi toglie i trenta euro di caparra che le ho lasciato la sera prima, ma a questo punto mi dice che per una tripla (in cui avrei dormito assieme ad altre due persone) le devo una cifra salatissima: qualcosa in più di 300 euro. Spalanco la bocca cercando di capire se devo riversare delle lamentele o degli insulti, quando all'improvviso alle mie spalle appare un altro amico (anche lui sabato sera era con noi, e anche lui non lo identifico, ma ha una faccia conosciuta), che senza battere ciglio estrae il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans e mette sul banco un nutrito fascio di banconote da 50 e 20 euro. Quindi si gira e, con un sorriso, mi fa un cenno di seguirlo fuori.
Mentre arriviamo alla porta dell'albergo, l'amico che ha pagato si gira e mi fa: "Ora tranquillo: non c'è nient'altro da temere ed è finalmente l'ora di svegliarsi"
Lo guardo, sgrano gli occhi: "Lo sapevo che era un sogno. Solo in un sogno potevo rimorchiare una ragazza che si è suicidata la sera che mi ha conosciuto, cavoli..."
Amico: "Tranquillo, questo è stato uno stupido incubo, ma siamo riusciti comunque a tenerlo sotto controllo..."
Chiudo gli occhi, poi dopo qualche secondo li riapro. Sono sul letto, prono. Sono le cinque di mattina e sta per suonare la sveglia. Accendo la luce. Lucky (che abbracciavo quando mi sono addormentato) e Ivano (che era al lato del cuscino) sono caduti dal letto, mentre Rafael è ancora accanto al cuscino, e mi rendo conto che con la mano sotto il cuscino ero arrivato ad afferrargli una zampina: per questo le cose hanno cominciato a tornare sotto una buona luce verso la fine...