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mercoledì 7 settembre 2011

La fuga a Catania

Siracusa, in compagnia di alcuni amici (anche se so che conosco tutti, non una sola faccia mi dice qualcosa). Dovrebbe essere una specie di rimpatriata dei tempi di scuola, o qualcosa del genere: è sabato sera e siamo in un pub fuori Ortigia. Sono in piedi accanto al tavolo cui sono seduti tutti quanti, poi mentre tutti discutono mi allontano e mi avvicino al bancone. A un ragazzo in maniche corte e con le braccia ricoperte di tatuaggi chiedo una birra Corona liscia (senza sale & limone), e questo attira l'attenzione di una ragazza seduta al banco, alla mia destra.
È carina: una giovane brunetta sulla trentina con gli occhi color nocciola e un paio d'occhiali bordati di nero che non le danno la classica aria da intellettuale. Ha l'apparecchio ai denti e un bicchiere di un non ben identificato coctail davanti al naso.
Lei: "Questa è la prima volta che vedo qualcuno prendersi una Corona liscia..."
Mi giro, le sorrido e spiego: "Un amico siciliano anni fa si è trasferito in Messico. Quando ha spiegato loro che la birra Corona in Europa la beviamo così, i messicani si sono messi a ridere."
Da questo punto attacchiamo un po' bottone: io parlo del mio lavoro, lei mi parla del suo e sembra che ci sia una certa sintonia d'interessi (e di un certo odio per il lavoro a contatto col pubblico), e la discussione va avanti per diversi minuti. Ci scambiamo persino i numeri di telefono, ma dopo pochi minuti, mentre finisco la birra, appare un gruppetto di altre tre ragazze (mi dice che sono sue amiche), e che cercano di tirarsela indietro.
A questo punto la ragazza (ecco, non mi ricordo il suo nome: splendido!) comincia ad apparire triste e preoccupata, e mi dice che adesso devono rientrare tutti a Catania.
Io: "A Catania? Ma non mi hai detto di lavorare qui? Vivi a Catania?"
C'è qualcosa che non mi convince. Per niente. È come se dovesse tornare a casa da genitori-padroni. Ma non ho molto tempo per farmi questo genere di ragionamenti, poiché nel giro di neanche una decina di minuti lei e il gruppo di amiche sono semplicemente sparite.
Ritorno verso il tavolo degli amici, che prima fanno commenti e prese per i fondelli per il mio "rimorchio", ma poi notando tutti la mia espressione cominciano a porsi in maniera differente sull'argomento. Però la taglio lì: non ho voglia di parlarne.

La mattina dopo, domenica, provo a chiamare la ragazza. Più volte, ma il telefonino le squilla senza alcuna risposta. Sento che c'è qualcosa di troppo strano: non so spiegare cosa sia: più che un'impressione è qualcosa legato all'atmosfera, all'aria che respiro. Sento che c'è qualcosa di sbagliato. All'ora di pranzo sono a casa, seduto a tavola e in compagnia di Francesco. Gli sto esponendo i miei dubbi, che culminano in una decisione: subito dopo pranzo ho intenzione di andare a Catania e cercare di raggiungerla.
Francesco cerca di farmi desistere: anzitutto non ho idea di dove abiti o si trovi, e soprattutto il fatto che sia catanese e con questo alone di mistero potrebbe significare anche qualcosa di brutto o pericoloso, che non posso affrontare così a cuor contento. Ma non voglio sentire discussioni, e subito dopo pranzo salgo in auto e parto, da solo, in direzione di Catania. Faccio il tragitto (che dopo augusta appare sulla vecchia strada e non sull'autostrada) cercando intanto di contattarla telefonicamente, ma come risultato immediato ne ottengo solo squilli a vuoto del telefono. Arrivato più o meno all'altezza del Torero, improvvisamente mi trovo davanti a un gigantesco cantiere con la strada completamente chiusa e ridotta a una specie di mulattiera sterrata e piena di mucchi di materiale di risulta. Sono costretto a lasciare l'auto e procedere a piedi, ma non mi faccio guidare da altro che da una preoccupazione che, essendo vicino a Catania, ora si fa crescente. La strada dopo poche centinaia di metri diventa quasi del tutto impercorribile anche a piedi, e sono costretto a spostarmi sulla destra procedendo lungo un percorso accidentato in mezzo alle sterpaglie. Per quasi due kilometri, addirittura, sono costretto a procedere avanzando lentamente lungo la scogliera.
Poi finalmente la mia caparbietà (o testardaggine?) ottiene la meglio, e finalmente giungo (devo dire non molto stanco, tra l'altro) al porto di Catania. Il sole è basso sull'orizzonte, ma direi che mancano almeno un altro paio d'ore al tramonto (deve essere fine maggio-inizio giugno: ho in mente un'immagine di qualche sparuto gruppetto di persone al mare dalle parti di Agnone Bagni). Comincio a camminare fino ad uscire dal porto ed avvicinarmi alla stazione ferroviaria, quando mi arriva un SMS. È lei, e il messaggio dice solo "Aiutami: corso XXXX" (no, non mi ricordo l'indirizzo esatto adesso, ma è qualcosa al centro di Catania, sulla collina; una strada che parallelamente sulla sinistra dà sull'Etna).
Sono a piedi, e giro ramingo per mezza Catania sino quasi a sentire il male ai piedi, ma poi a forza di chiedere notizie e informazioni in giro, raggiungo l'indirizzo. La strada non è più lunga di un trecento metri, e a poche decine di metri dall'inizio appare il portone di un albergo. Il sole sta per tramontare, per cui entro nell'albergo, lascio una caparra di trenta euro e chiedo di potermi fermare un paio di giorni.
Mi danno una camera al primo piano, ed è bellissima, molto ampia: un letto matrimoniale in fondo e un divano e un tavolo con quattro sedie all'ingresso. Accanto all'ingresso, sulla sinistra, ci sono il bagno e una porta-finestra, con l'invito a fumare in balcone. Estraggo il pacchetto di ms spiegazzato dalla tasca ed esco sul balcone: so che ho già cenato, e scrivo un SMS alla ragazza per dirle che adesso sono in quest'alberghetto, poi provo a chiamarla. Di nuovo il telefono squilla, ma stavolta noto qualcosa: c'è silenzio fuori, e non passano auto sulla strada. Sento una suoneria lontana, come se venisse dal palazzo di fronte. Chiudo la chiamata e s'interrompe la suoneria. Le reinvio un SMS e tendo le orecchie: dopo pochi istanti sento due beep lontani. Riprovo a chiamare e la suoneria riprende, e si spegne non appena chiudo la chiamata. È evidente: abita nel palazzo di fronte. Ma le finestre e i balconi che danno sulla strada, da dove sembra venire la suoneria del cellulare, sono tutte chiuse e scure. So che è tardi (anche se non ho guardato l'orologio) per cui decido di desistere, almeno per il momento. Non c'è molto caldo, però chiudo le imposte ma lascio aperta la porta-finestra. Poi vado a letto, più preoccupato che tranquillo.
Quando mi risveglio sono circa le cinque di mattina, e il sole non si è ancora alzato; per prima cosa vado a farmi la doccia, e quando esco sento del movimento, di fuori. Guardo dalle imposte e noto diverse auto della polizia parcheggiate fuori, al palazzo di fronte. C'è anche un'ambulanza. Mi vesto molto rapidamente, quando bussano alla porta. Apro stupito (ancora non si è alzato il sole) mentre mi sto abbottonando la camicia. Fuori c'è uno degli amici con cui siamo stati nel locale sabato sera. Non identifico l'amico, anche se so che ci conosciamo da molto tempo, e per prima cosa mi fulmina con delle parole tremende: "C'è stato un suicidio di gruppo nel palazzo di fronte. Credo che sia coinvolta anche la tua amichetta, e credo che sia successo già la notte scorsa, e se ne sono accorti solo poco fa. Ma per ora non pensarci e rilassati."
Le sue parole mi colpiscono con la forza di un maglio, e mi butto a sedere su una sedia accanto al tavolo, ma il suo semplice "per ora non pensarci e rilassati" mi risuona nella mente con una dolcezza infinita, e mi fa sentire automaticamente più tranquillo: persino l'intenzione di spostarlo e lanciarmi fuori dall'albergo e davanti al palazzo per vedere cos'è successo è improvvisamente passata. Restiamo fermi, uno di fronte all'altro, per pochi, interminabili, minuti.
Poi lui riprende la parola: "Usciamo in balcone, ci fumiamo una sigaretta..."
Mi trascino fuori sentendomi fuori dal mondo. In realtà avevo capito che doveva essere successo qualcosa di grave: una risposta violenta a tutte le mie preoccupazioni...
Il cielo comincia a illuminarsi, e vediamo arrivare altre due ambulanze, mentre comincia a uscire una lettiga completamente coperta da un lenzuolo bianco. Distolgo lo sguardo e lo porto verso sinistra, notando un'altra porta finestra.
Io: "E quella?"
Amico: "Beh, sarà la finestra della camera accanto, no?"
Io: "No, qua accanto c'è solo il corridoio..."
Mi avvicino, le imposte sono aperte e dentro appare buio, ma appare come una piccola stanzina. Mi appoggio alla finestra e scopro che è aperta. Entro, seguito dall'amico. C'è una stanzina che ha solo questa porta finestra e una finestrella sul lato opposto. Niente porte d'ingresso. Su un lato c'è una libreria che trabocca di vecchi libri, al centro un divano simile a quello che ho in camera, e davanti un tavolino di vetro. Sotto il tavolino e sulla parete opposta è pieno di scatoloni traboccanti di libri ed altre cose. Su uno degli scatoloni fa bella mostra di sé una vecchissima macchina fotografica tipo "instamatic". Ci giriamo attorno per qualche minuto con un sorriso, rivedendo vecchi oggetti storici. Poi finalmente dico all'amico che comunque voglio uscire e vedere che sta succedendo.
Mentre arriviamo davanti alla reception, trovo la signora che mi ha accolto la sera prima e le chiedo di poter lasciare la camera, chiedendo quindi il conto.
La signora, con un sorriso, prende la calcolatrice e calcola il costo della camera, poi toglie i trenta euro di caparra che le ho lasciato la sera prima, ma a questo punto mi dice che per una tripla (in cui avrei dormito assieme ad altre due persone) le devo una cifra salatissima: qualcosa in più di 300 euro. Spalanco la bocca cercando di capire se devo riversare delle lamentele o degli insulti, quando all'improvviso alle mie spalle appare un altro amico (anche lui sabato sera era con noi, e anche lui non lo identifico, ma ha una faccia conosciuta), che senza battere ciglio estrae il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans e mette sul banco un nutrito fascio di banconote da 50 e 20 euro. Quindi si gira e, con un sorriso, mi fa un cenno di seguirlo fuori.
Mentre arriviamo alla porta dell'albergo, l'amico che ha pagato si gira e mi fa: "Ora tranquillo: non c'è nient'altro da temere ed è finalmente l'ora di svegliarsi"
Lo guardo, sgrano gli occhi: "Lo sapevo che era un sogno. Solo in un sogno potevo rimorchiare una ragazza che si è suicidata la sera che mi ha conosciuto, cavoli..."
Amico: "Tranquillo, questo è stato uno stupido incubo, ma siamo riusciti comunque a tenerlo sotto controllo..."
Chiudo gli occhi, poi dopo qualche secondo li riapro. Sono sul letto, prono. Sono le cinque di mattina e sta per suonare la sveglia. Accendo la luce. Lucky (che abbracciavo quando mi sono addormentato) e Ivano (che era al lato del cuscino) sono caduti dal letto, mentre Rafael è ancora accanto al cuscino, e mi rendo conto che con la mano sotto il cuscino ero arrivato ad afferrargli una zampina: per questo le cose hanno cominciato a tornare sotto una buona luce verso la fine...

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