Il paese non è molto grande, mi ricorda una via di mezzo fra Città Giardino e Borgo Valsugana. Sulla stradina fra le case c'è il classico groviglio di auto parcheggiate, uno, forse due posti liberi già da tempo. Ma noi stiamo aspettando nascosti nella mia Ford parcheggiata dal pomeriggio.
Poi, finalmente, arriva. Si tratta di una vecchissima Peugeot 205 rossa, mezza arrugginita, mezza scassata e con i segni di un tamponamento sulla fiancata anteriore sinistra molto violento, riparato alla pene di segugio, e con segni di ruggine che fanno intendere si tratti di un incidente molto vecchio.
Gaetano ha attirato la mia attenzione indicandomi l'auto che arranca verso un parcheggio poco scostato davanti a noi: -È il momento. Tieniti pronto e andiamo.
Guardo l'auto con molta indecisione: mi viene molto difficile credere che sia la porta verso quella che promette di essere un'avventura, ma non solo per rappresentare un modo interessante di trascorrere una notte, quanto piuttosto per capire una volta per tutte che cosa succede lì sotto in Ortigia, dove dovremmo essere diretti fra poco.
La persona che scende dalla 205 è un uomo basso, tarchiato, sulla sessantina. Pochi capelli bianco-giallognoli e una barba incolta che incornicia una faccia piena di rughe e nei; due occhietti neri e sorcini che sembrano scrutare in tutte le direzioni. Sbatte in malo modo lo sportello e si allontana in direzione di un portone sulla sinistra. Ci sono delle palazzine di due-tre piani che sembrano il risultato dell'edilizia moderna degli anni '90, e appaiono con colori gradevoli che non si stagliano bene nell'oscurità, e l'interno dell'androne da cui si riesce a vedere dall'esterno le pareti di cemento armato lasciate grezze e con il segno delle assi di carpenteria che hanno creato il box per il calcestruzzo.
Restiamo fermi in auto, in attesa. La luce sulla scala si spegne e rimane solo la fioca illuminazione interna. Non guardo Gaetano, sul sedile del passeggero, ma è a lui che mi rivolgo: -Ma... non l'ha neppure chiusa a chiave?
-Non credo che la serratura dello sportello funzioni. Anzi: guarda in che condizioni la tiene: pensa che nessuno potrebbe mai rubargliela.
Gaetano esce silenziosamente dall'auto. Lo seguo e ci avviciniamo con fare furtivo a quel catorcio, poi quasi strisciando la raggiungiamo e montiamo a bordo. Solo un attimo, e poco prima che Gaetano provi a strappare i cavetti per accenderla, mi scopro a fare un gesto molto americano: abbasso il parasole consunto sul lato guidatore, e il mazzo di chiavi ne salta fuori laconico.
Ci guardiamo nell'oscurità, soffocando una risata, poi con molta attenzione Gaetano inserisce le chiavi e accende il quadro. Un respiro profondo e gira la chiave. Il motore parte al primo colpo: retromarcia e ci allontaniamo lentamente e silenziosamente, poi usciamo dal palazzo e via a tutta velocità.
Percorriamo strade non ben identificate, in mezzo ad agglomerati di case, per quasi un'ora, giungendo infine a Siracusa dal lato del Villaggio Miano. Gaetano continua tranquillo in direzione di Ortigia, poi finalmente prendiamo la sopraelevata che, accanto al ponte umbertino, sale in direzione del retro di Ortigia.
L'isola di Ortigia appare come un agglomerato di periferia di un ambiente modernissimo. Ci sono grattacieli, ma in mezzo sbucano palazzi antichi e reperti archeologici (la sopraelevata ha un gigantesco pilone di metallo che si spalma al centro del Tempio di Apollo (mafia e interessi economici hanno prevaricato sull'interesse storico?). Arriviamo quasi all'altezza del lungomare, e ci fermiamo. Qualcuno arriva da un bugigattolo fra due grattacieli, ove appare una piccola costruzione mezza diroccata. Non facciamo domande, e neanche lui ne fa a noi: si limita ad accompagnarci dentro la costruzione.
Prendiamo una scala, e scendiamo subito sotto al livello della strada. A questo punto percorriamo un corridoio molto lungo, scarsamente illuminato e con diverse infiltrazioni d'acqua e macchie di muffa in giro, anche se appare come di muratura.
Dopo diversi minuti di camminata arriviamo davanti ad una porta. Il tizio che ci accompagna apre la porta e ci fa cenno di entrare, poi la chiude rimanendo fuori.
Siamo in una specie di montacarichi in metallo arrugginito. C'è una sola lampadina che pende dal tetto: Gaetano mi guarda con un'espressione interrogativa. Io mi avvicino alla porta, ove c'è una pulsantiera consunta con solo due tasti. Premo quello più in alto e il montacarichi si avvia con uno scossone e una serie inquietante di cigolii di metallo: -Ormai siamo arrivati a questo punto, non possiamo fermarci...
L'ascensore si muove ad una velocità più o meno normale, e davanti all'ingresso scorre solo una parete impolverata e bisunta. Passano almeno cinque minuti, quando finalmente ci troviamo davanti ad un'apertura con la porta scardinata e una serie di fili elettrici che vengono fuori dalla serratura. Stiamo per saltare fuori al volo, ma l'ascensore si ferma all'altezza di questo strano piano. Scendiamo e giriamo lungo un corridoio che ha una parete sulla destra e una serie di finestre sulla sinistra. Dalle finestre filtra la luce notturna, ma il cielo appare lentamente illuminarsi, e mentre camminiamo il sole comincia molto lentamente ad alzarsi.
In contrasto con la porta dell'ascensore arrugginita e scardinata, questo ambiente appare molto pulito e ordinato.
Passano ancora diversi minuti di percorso, poi il corridoio finisce su una specie di porta-finestra che da su una passerella di metallo. Apro questa porta e continuiamo lungo la passerella, mentre i primi raggi di sole rossastri sulla nostra sinistra stanno illuminando l'ambiente.
Non siamo ad un'altezza eccessiva (più o meno all'altezza di un quarto piano medio), e la passerella finisce sul tetto dell'edificio di fronte a noi. Dietro di noi c'è un grattacielo di vetro e cemento, la costruzione ove ci dirigiamo invece cade letteralmente a pezzi.
Appena lasciamo la passerella e cominciamo a calpestare la terrazza, ci sono diversi inquietanti scricchiolii che vengono dal pavimento: diverse volte ci muoviamo con molta circospezione, trattenendo letteralmente il respiro. Finalmente arriviamo in una specie di costruzione con una porta, e la apriamo trovando una scala che scende al piano inferiore. Entriamo tranquillamente e scendiamo, trovandoci in un ambiente molto grande. Sulla sinistra c'è una specie di porta-finestra che da su un balcone a raso (praticamente una vecchia ringhiera su una struttura di 10cm). Sul lato destro vicino alla finestra scende una scala, mentre al centro della grande stanza c'è una struttura stranissima. All'altezza di circa 50cm dal pavimento c'è un grosso piano inclinato, che appare come una specie di gigantesco scivolo che percorre verso il piano inferiore. Sulla superficie appaiono delle scritte in vernice bianca con delle frecce che indicano la discesa e un paio di volte appare la parola "USCITA".
Davanti a noi, avvicinandosi a questo piano, c'è un punto dal quale si potrebbe saltare, e c'è una specie di ringhiera di metallo dipinta di giallo, alta 15-20cm rispetto al piano, e mi sono avvicinato ad un punto in cui c'è un cartello di lamiera metallizzata con un cartello di senso vietato e le parole "DIVIETO DI ACCESSO".
Mi giro verso Gaetano: -Io non sono qui per rispettare dei divieti. Andiamo di qua, o vuoi prendere le scale e vediamo come va a finire?
Gaetano mi risponde con circospezione: -Preferisco affrontare le scale.
Quindi si gira e torna indietro verso la rampa di scale. Lo seguo con lo sguardo finché sparisce, poi mi guardo intorno nell'ambiente e, infine, salgo sulla struttura e metto la mano destra sul corrimano sopra il cartello di divieto per spingermi e scavalcarlo, ma in quella una voce mi fa girare di scatto: -Da lì non è consentito. Conosci le regole del gioco, dobbiamo fare le scale.
C'è una ragazza. Capelli biondi, lisci, lunghi fino alle spalle. È vestita in modo pressoché normale, ed ha in mano una cartelletta con, legato in punta, una specie di apparecchio.
-A dire il vero non mi sono state spiegate bene le regole, e comunque non credevo di fare niente di male.
-Non mi interessa. Devo multarti: mi devi cinque euro.
La ragazza preme qualche tasto sull'apparato nella cartelletta, poi si avvicina tendendo la mano destra verso di me. Infilo una mano in tasca e le rispondo: -Allora dammi tu quindici euro, perché ne ho venti addosso.
-Non c'è problema.
La ragazza si infila la mano in tasca, prende il portafogli e ne toglie due banconote: una da dieci e una da cinque.
Io prendo il portafogli, guardo i venti euro, poi le restituisco i dieci euro che mi ha dato lei: -Ah, no. Ricordavo male: ho dieci euro. Tengo i cinque di resto.
Lei non batte ciglio e riprende in mano i dieci euro, li rimette nel portafogli soddisfatta e poi mi indica la scala da cui è sparito Gaetano un minuto prima: -Vogliamo andare, adesso?
-Naturalmente.
La seguo. Cominciamo a scendere la scala: sono due rampe contrapposte che riportano davanti alla porta-finestra del balcone del terzo piano, ma a questo punto l'ambiente appare come un piccolo androne di piano, con delle pareti accanto alla finestra e delle porte di legno. Il legno appare marcio, bucato e danneggiato dal tempo e dall'umidità. Mi avvicino alla continuazione della rampa per scendere di un altro piano, ma la ragazza mi ferma: -Aspetta. Sai che dobbiamo tirare i dadi ogni volta, e dovresti raccogliere qualcosa da ogni piano.
La ragazza si infila una mano in tasca e ne estrae tre dadi (sono tre sassolini scolpiti a forma di cubo alla peggio, con i puntini sulle facce che sembrano piuttosto delle macchie di unto). Li getta e li raccoglie non appena si fermano, mentre io mi avvicino alla porta-finestra e la apro con attenzione. La porta si scardina e acchiappo al volo il vetro che sta per cadere. Lo poggio a terra, poi mi inginocchio e guardo la base della ringhiera, dove il balcone appare diroccato e seminato di sassolini. Prendo un sasso grosso come mezzo limone, e lo porgo alla ragazza: -Dammi subito quei dadi, d'ora in avanti li tengo io. Tu tieni questo.
Mi guarda con stizza, come se le avessi rovinato il gioco, ma mi porge i dadi. Le do il sasso e mi dirigo di nuovo sulla scala. Scendiamo al secondo piano e lancio i dadi in terra. Cinque, cinque, due. Dodici, li raccolgo con la mano destra, mentre con la sinistra prendo una scheggia di vetro che c'è per terra e la porgo di nuovo alla ragazza. Lei la prende in silenzio, ma mentre mi avvicino alla scala per scendere ancora, lei tira un calcio ben assestato alla porta finestra. Una delle due ante di legno e la ringhiera si staccano di netto e precipitano rumorosamente. Guardo la ragazza con un'espressione stupita, ma lei mi supera sulle scale e scende al piano inferiore. Lì le scale sono finite, e la porta finestra conduce a una specie di pozzo luce. Da una porta a sinistra delle scale esce Gaetano, in silenzio. Non mi guarda neppure, né da qualche cenno di saluto, e io faccio altrettanto. La ragazza esce sul pozzo luce, camminando tranquillamente sulle macerie della porta e della ringhiera cadute dal piano superiore. Noto che sta calzando degli stivaletti di pelliccia nera. Usciamo io e Gaetano, e raggiungiamo un punto sul terrazzino che da su una specie di grosso tombino segmentato sul lato opposto alla finestra.
Gaetano e io ci avviniamo al lato sinistro di questo tombino, largo una settantina di centimetri e lungo un paio di metri. Ci sono una quindicina di coperchi di metallo che sembrano collegati fra di loro, con una specie di meccanismo telescopico.
Affrontiamo il primo coperchio, che ha una specie di serratura arrugginita: un paio di calci ben assestati e si sgancia. Cominciamo a far scorrere tutti questi coperchi sulla sinistra, che si sovrappongono uno sull'altro.
Subito sotto appare una specie di scaletta pieghevole: sull'estremo destro c'è un gancio che molliamo, e lentamente facciamo scendere questa scaletta, che si appoggia a una scala in muratura poco più larga che appare in basso.
Io e Gaetano ci guardiamo, e in quella la ragazza mi si fionda letteralmente addosso, gridando: -Fermi! Non possiamo andare avanti, non prima di aver tirato i dadi! Non sappiamo che cosa potrebbe succedere!
Mi strappa letteralmente di mano i dadi e li lancia a casaccio, tanto che uno casca proprio dentro questo tombino e finisce da basso, ma ora lei appare più tranquilla.
Guardo in alto: i balconi appaiono molto vicini sulla nostra destra (meno di due metri) e dall'esterno è molto più evidente la condizione precaria in cui si trova l'intero palazzo. Faccio un segno a Gaetano, che mi fa subito il segno del pollice in alto, poi si infila nel tombino senza toccare la scala e mette i piedi sul lato destro della scala di muratura, nel poco spazio che c'è fra la scala stessa e la struttura di metallo che ci si è appoggiata sopra. Guardiamo in basso: sotto la scala c'è una specie di vetrata a gradini, e sotto la vetrata appare la Carrozza del Senato.
-Eh? Ma siamo finiti a Palazzo Vermexio?
Gaetano scuote la testa: -No, ma siamo comunque vicini: già da qualche anno era stata nascosta. Però c'è qualcosa che non mi convince.
Gaetano si piega sulle ginocchia, e appoggia con molta delicatezza una mano al centro di uno scalino della scala metallica, premendo verso il basso. Subito uno scricchiolio sinistro e un piccolo fiotto di polvere bianca si molla da sotto la scala e si spalma sul vetro sotto di noi: -È in condizioni disastrate: forse la scala di metallo regge, ma quella sotto crollerà di netto seppellendo la carrozza.
-Certo, e guarda in alto- lo interrompo. -Tutti i balconi sono cadenti, e la vibrazione di quel crollo tirerà giù tutto il resto. Anche questa brava ragazza ha tentato di smuovere le acque con quella pedata.
La ragazza ci guarda con un'espressione inquientata, e poi si gira per scappare in direzione della porta-finestra da cui siamo usciti, ma subito Gaetano balza fuori e la spinge in avanti, mentre le stendo la gamba sinistra davanti ai piedi, facendola inciampare e cadere con violenza a terra.
Cerca di rialzarsi, ma Gaetano le è sulla schiena subito. Riesce ad alzare la testa (il naso le comincia a sanguinare lentamente) e mi guarda, mentre io prendo la radio dalla giacca e chiamo: -Ok, potete raggiungerci tutti subito. Situazione sotto controllo.
Mentre giunge un "ricevuto" dall'altra parte, la ragazza, sconvolta, mi chiede quasi gridando: -Ma come? Non è possibile! Conoscevi le regole: niente telefonini cellulari.
La guardo con un sorriso: -Primo, le regole le conosce quel cretino a cui abbiamo fregato la macchina un paio d'ore fa. Secondo, questo non è un cellulare, e terzo non dovevo rispettare nessuna regola, e non l'ho fatto sin dall'inizio: mi hai fatto una multa di cinque euro, ma sei tu che hai pagato cinque euro a me, e non io a te.
Mi guarda, e io mi giro di nuovo a guardare i balconi sopra di noi.
Poi il buio
Apro gli occhi, e cerco di mettere a fuoco la proiezione dell'ora: sono le quattro e venti di mattina... sento il caldo di Lucky sotto al braccio, lo tiro un po' su: -Buongiorno Lucky. Io sono stanco di dirti che non è possibile che mi fai fare sogni del genere ogni volta che ti permetto di dormire insieme a me... ma ti rendi conto che adesso perderò diverse ore solo per digitarlo? (-:
Ma come sempre, mi sono divertito molto! ((-:
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