sabato 6 dicembre 2008

Lupo delle montagne

Il paesaggio del Minnesota sembrava immutabile negli anni: i fitti boschi ricchi di vegetazione mista e le ampie praterie che si stagliavano fra i boschi davano al paesaggio quasi un tocco magico.
Era proprio in una di quelle ampie radure che, da lunghi anni, viveva la tribù degli Fremechos, una sottotribù degli indiani Apache.
Consideravano quei luoghi come sacri, anche se mi lasciava pensare parecchio il fatto che anche se venivano trasferiti dall'uomo bianco, finivano sicuramente in un altro luogo sacro...
Devo certamente dire che non sono la persona adatta a giudicare il sentimento indiano in generale, ma qualcosa la ho veramente capita, stando a contatto con loro.

Mi chiamo Robert Furihan, sono un giornalista. Nel 1974 mi ero interessato dei problemi della tribù Fremecho, che rischiavano di venire trasferiti dopo oltre quattro secoli, dai loro "sacri terreni", presso altri boschi al di là delle montagne, e questo per il solito bisogno dell'uomo bianco di sfruttare il terreno, per costruire...
Proprio in quella ampia prateria dove c'erano i pellerossa volevano fare un centro commerciale.
Per bianchi, è ovvio, ma forse anche per pellerossa. Non mi faceva impressione vedere pellerossa che cacciavano con i fucili o giocavano a carte, certamente l'influsso del progresso e dell'uomo bianco aveva cambiato alcune loro abitudini, ma se restavi con loro, anche solo per dieci minuti, ti accorgevi che l'atmosfera, quella di cordiale amicizia e di popolo dalle antiche tradizioni, era sempre la stessa, immutata nei secoli, come i boschi.
Fu proprio nel 1974 e grazie al mio interessamento che gli americani vennero a sapere delle trame che i "potenti" cercavano di tenere nascoste...
E fu proprio in quell'anno che la prateria che gli Fremechos chiamavano Loictam fu dichiarata riserva indiana inviolabile.
Oggi lì, a quattro miglia da Fargo, ci sono dei pozzi petroliferi: io non sono riuscito nel mio intento fino in fondo.
Non so dove siano adesso gli Fremechos, né se verranno ancora trasferiti...

Durante quei giorni di lotta, conobbi lo sciamano della tribù, Vorhan, ma da tutti chiamato Lupo delle Montagne.
Egli mi presentò anche al capo tribù Cane Solitario.
Già da subito mi accorsi dell'atmosfera che girava intorno a quei due: entrambi erano i più anziani della tribù; Cane Solitario era venerato al punto che chiunque (Tranne Lupo delle Montagne) prima di conferire con lui o se lo incrociava per strada, faceva un ampio inchino.
Questo non perché Cane Solitario fosse tiranno, assolutamente: tutti in lui rispettavano la sua saggezza, e il fatto che la sua parola fosse legge non lo poneva sul pulpito del dittatore. Egli dimostrava benissimo di sapere che il potere è come la spada di Damocle, che ti pende sulla testa.
Nonostante lo avessi visto poche volte, avevo notato come Cane Solitario ispirasse veramente un sentimento di fiducia intorno a lui.
Fra il capo e lo sciamano vigeva un rapporto di fratellanza incredibile: Lupo delle Montagne mi raccontò che un freddo inverno il capo Cane Solitario era oppresso dalle febbri, ed egli, saputolo, si precipitò presso la tenda del capo, lasciando in sospeso un sacrificio agli dei.
Mi spiegò che era un sacrilegio interrompere un sacrificio, ma che qualunque dio era molto felice quando si compiva una buona azione, e allora soprassedeva anche su queste cose.
Infatti nella specifica avrebbe dovuto cambiare lo "scopo" del sacrificio, ponendolo come richiesta per la guarigione del capo tribù, che avvenne il giorno successivo.
Confesso che non credo troppo a questo... ma diciamo che lo do comunque per valido, fidandomi della grande fede degli Indiani d'America.
Lupo delle Montagne mi impressionava, era una persona veramente particolare: aveva i lunghi capelli costantemente racchiusi a coda, portava sempre una sudicia camicia in cotone a scacchetti, chiaro influsso del periodo, oltre ad un paio di bluejeans lerci.
Peraltro mi colpiva il bandana blu che teneva sempre infilato nella tasca posteriore sinistra dei pantaloni, a mo' di coda.
Era un chiaro influsso del periodo, però nonostante i vari occhiali da sole, fucili, birre e altre cazzate sembrassero ridicole addosso agli indiani, vederlo vestito in quel modo e con quella sorta di coda blu sembrava normale, come se non ci fosse altro modo in cui potesse essere vestito.
La dichiarazione delle loro terre a riserva indiana avvenne intorno alla fine di novembre, quando ormai cominciava il grande inverno freddo e le prime nevicate coprivano i boschi di un manto bianco.
All'inizio della primavera successiva, eravamo nei primi giorni del marzo 1975, mi trovavo nei boschi adiacenti la riserva indiana: ero lì per osservare la natura e cercare un buon posto dove andare a pesca.
Dopo circa un paio d'ore che camminavo, incontrai, sulla riva di un fiume, un piccolo bambino indiano (avrà avuto tre o quattro anni), intento a giocare sulla ghiaia.
Dapprima il piccolo non si accorse della mia presenza, ed io in quella stavo peraltro pensando se avessi sconfinato nella riserva senza vedere le segnalazioni; eppure ero sicuro di essere ancora in "territorio libero".
Dietro di noi, a poche centinaia di metri, si apriva una specie di sentiero che collegava la riserva alla città; pensai che il bambino fosse venuto da lì.
Dando un occhio alla cartina mi accorsi che comunque eravamo fuori dalla riserva di almeno tre miglia. Cominciai a guardarmi intorno, cercando la madre del piccolo, e mi feci avanti, facendomi notare; però oltre a me e al bambino non si vedeva nè si sentiva nessuno.
Provai a chiamare: "C'è qualcuno?" un po' in tutte le direzioni, ma senza ottenere risposta.
Finalmente mi decisi: presi il bambino e lo portai con me, indietro di circa un miglio, per prendere la macchina e riportarlo nella riserva.
Dopo circa un quarto d'ora giungevo, con l'auto, fino al cartello che annunziava l'inizio della riserva indiana, ed il divieto di proseguire con mezzi non autorizzati.
Nonostante il cartello continuai a guidare, per altre due miglia, su di un sentiero che era stato battuto da ben poche auto, e giunsi fino a vedere le prime tende e capanne del villaggio.
Immediatamente vidi lo sciamano che si avvicinava: conosceva la mia auto e quindi sapeva che c'ero anche io.
Quando giunse a pochi metri dall'auto, aprii lo sportello e scesi, dicendo: "Lupo delle Montagne, ho trovato un bambino, a qualche miglio da qui, vicino al fiume."
Lo sciamano si fermò, ormai a pochissimi metri dall'auto, mi sorrise e poi si voltò indietro, chiamando a gran voce uno dei cacciatori: Aquila Maestosa.
Aquila Maestosa era un giovane di circa venticinque anni, e venni a sapere che il bambino che avevo trovato era suo figlio, sperduto da ormai due giorni interi, per il quale tutto il villaggio stava per mobilitarsi alla ricerca.
Aquila Maestosa abbracciò sorridente il piccolo; poi giunse la sua donna, non ricordo il nome (mamma mia, le donne indiani passano dai Totem con nomi terrificanti!), e lo portò via, mentre il giovane padre mi abbracciava commosso, ringraziandomi nella sua incomprensibile lingua.
Più tardi lo sciamano mi spiegò (come peraltro arguivo) che Aquila Maestosa mi ringraziava, ed era stupito del rispetto e della lealtà dimostrata da un uomo bianco nei confronti di un pellerossa.
Accettai, per quella sera, di restare assieme a loro, questo anche perché Aquila Maestosa aveva conferito con il capo Cane Solitario, e mi fu chiesto di fumare con loro il calumet.
Questo normalmente era un onore per un ospite: quando un indiano ti offre il calumet vuol dire che vuole dividere con te un piacere, e quindi che tu sei un suo ospite gradito; per loro l'ospite è sacro quasi quanto un dio, ed il calumet è un segno di pace.
La sera trascorse intorno al fuoco, con me alla destra del capo Cane Solitario, e lo sciamano a sinistra.
In quella occasione appurai che le erbe aromatiche che fumavano con il calumet erano praticamente le stesse che utilizzavano per insaporire le carni che mangiavano... sembrava quasi di fumare del rosmarino... un sapore fortemente dolciastro ma comunque molto leggero.
Se poi teniamo in considerazione che io riverso nei miei polmoni la media di 40 Pall Mall al giorno, beh, probabilmente anche mezza Marlboro mi sarebbe sembrata aria.
La sera sembrava trascorrere tranquilla, ma poi, improvvisamente, giunse la madre del bambino, urlando disperata.
Subito il capo Cane Solitario si alzò, facendo cadere la pipa sacra e con un'espressione del volto che dimostrava una grande preoccupazione.
Lupo delle Montagne si alzò anche lui, quasi con la stessa espressione del capo, e mi disse brevemente: "Il piccolo Hurid sta male: ha le febbri, forse nel bosco ha mangiato dei frutti non sani..."
Accorsero altri uomini ed altre donne, cercando di rassicurare la madre ed il padre; nel frattempo io, il capo e lo sciamano corremmo verso la tenda dove riposava il piccolo. Entrammo.
Il capo uscì quasi subito, disgustato e preoccupato alla vista della scena; io riuscii a resistere, ma da allora mi auguro di non dover assistere più ad uno spettacolo simile.
Il piccolo giaceva avvolto da una pelle di orso, bianco come un lenzuolo candeggiato, tremante, con profonde borse viola sotto gli occhi; alla sua sinistra una chiazza di vomito sanguigno. Aveva l'espressione di una persona che patisce un tremendo dolore, ma lo sguardo nel vuoto.
Un'espressione che non si può vedere in un bimbo di quattro anni... Alla vista di quella scena ebbi l'impressione che il mio cuore si fosse fermato per qualche secondo, sentii il sangue che mi scendeva dalla testa e si fermava sulle gambe; stavo per svenire, non riuscivo a respirare, ma poi mi ripresi quasi subito: diavolo, sono io, l'adulto!
Vidi lo sciamano che chiudeva gli occhi e univa le mani, con gli indici in alto e le altre dita intrecciate, poi di colpo aprì gli occhi e mi disse, ancora con le mani in quella assurda posizione: "Uno spirito maligno lo ha guidato fuori dalla riserva, poi lo ha avvelenato, il male sta cercando di tentarci puntando verso i nostri affetti più cari... devo fare presto!".
Si lanciò quindi fuori dalla tenda.
Lo seguii con lo sguardo; guardando fuori mi accorsi che Cane Solitario era abbracciato ad un altro anziano, che non avevo mai notato prima di allora, e che gli parlava, piangendo.
Uscii dalla tenda e mi avvicinai: il capo tribù non si accorse della mia presenza, mentre l'altro anziano seguiva con lo sguardo lo sciamano che correva verso un sentiero che portava su una collina, urlando qualcosa che non capivo se fosse una preghiera o un richiamo per qualcuno.
Poi, improvvisamente, il silenzio.
Cane Solitario aveva alzato lo sguardo, con ancora le lacrime agli occhi, e così aveva fatto il suo compagno, e così avevano fatto quasi tutti gli indiani della riserva.
Improvvisamente uno dei cacciatori mi prese per il braccio sinistro e mi tirò indietro, dicendomi: "Tu non può stare qui, uomo bianco, tu va. Fuori di riserva, non può stare qui..."
Indietreggiai fino all'auto, la accesi e imboccai la strada che mi aveva portato fin li: avevo capito che qualcuno dei loro segreti riti magici stava per compiersi, e la mia presenza non sarebbe stata che di intralcio.
Mah, forse perché avevano paura che vedessi i loro trucchi da baraccone, o forse perché volevano mantenere la tradizione... sta di fatto che non volevo essere io ad interrompere le loro usanze.
Eppure pensavo che forse sarebbe stato meglio condurre il piccolo in ospedale: non credevo a quella storia degli spiriti maligni che mi aveva raccontato lo sciamano, ed ero convinto che il bambino avesse poche possibilità di sopravvivere.
Giunsi infine in città, era circa mezzanotte e la luna non era molto visibile, questo aveva incuriosito tutti i cittadini che erano ancora svegli, primi fra tutti quelli al bar di Louis, subito fuori città.
Infatti non appena scesi dall'auto, proprio di fronte al locale, iniziarono a riecheggiare fra le montagne una serie di ululati.
Di solito questo fenomeno avveniva nelle notti di luna piena, e non durante una notte così.
Inoltre non era normale. Era molto più inquietante. Moltissimi ebbero paura; entrato nel locale mi accorsi che l'atmosfera era tesa, alché tenni per me che venivo dalla riserva indiana.
Il giorno dopo, quasi meccanicamente, tornai lì. Devo ammetterlo: ero seriamente preoccupato per la sorte del bambino.
Ed invece le mie preoccupazioni si rivelarono, miracolosamente, vane: non appena giunsi alla riserva notai subito il piccolo che giocava in terra con dei sassi, circondato dalla confortante presenza dei due genitori.
Andai subito verso la tenda dello sciamano, ma era vuota.
Mentre mi allontanavo dalla tenda, lo vidi arrivare da un sentiero sulla destra, sembrava molto stanco, come se non avesse dormito per tutta la notte: era pallido, aveva il contorno degli occhi in risalto...
Di colpo lo mi vide anche lui: si fermò ed iniziò a guardarmi; la sua espressione era di incertezza e di interrogazione assieme: immaginai che volesse sapere del bambino, ed infatti gli dissi, con una certa incertezza e indicando col pollice dietro di me: "Ora sta bene..."
Finalmente sorrise, soddisfatto.
Quel giorno non mi riuscì di parlargli a lungo: mi disse infatti che voleva riposare, ma non mi disse nulla sulla sera precedente.
Non pensai più all'accaduto. Tornato a Fargo trovai del lavoro arretrato presso gli uffici del giornale in cui lavoravo.
Passarono così dieci giorni dall'ultima volta che ero stato nella riserva indiana. Poi, l'undicesimo giorno, e per la precisione la sera, intorno alle dieci, sentii l'atmosfera tesa: ero convinto che stesse per succedere qualcosa, ma non capivo cosa.
A quell'ora avevo appena finito di lavorare, ed uscivo dall'ufficio per prendere la macchina e tornare a casa.
Eh, già: adoro fare le ore piccole al lavoro... invece che tornare a casa alle sette, come tutte le persone normali, volevo continuare un articolo per il giorno dopo relativo agli attentati all'associazione dei pescatori.
Salii in macchina, la sensazione di tensione aumentò: avevo appena messo in moto ed ero lì, seduto, che mi guardavo attorno quasi in preda al panico, poi successe.
Di fronte a me. Mi impaurì, ma non riuscii a pensarci più di tanto.
Lupo delle Montagne. O forse una sua immagine, un'allucinazione.
Ingranai la marcia e partii di corsa, dirigendomi verso il bar di Louis.
Talvolta quel locale è frequentato da alcuni indiani della riserva, che vanno lì per bere e giocare a carte, o per parlare del più e del meno, insomma per far scorrere la serata.
Stavo correndo. Avevo superato il limite di velocità, non capivo perché, ma sapevo che era necessario.
Prendendo la statale che si dirige fuori dalla città iniziai a portarmi dietro una macchina dello sceriffo.
Sapevo che sarebbe stato meglio fermarmi, ma non c'era tempo: dovevo correre. E per fortuna il vicesceriffo Haldan sapeva che quando corro così lo faccio perché è successo qualcosa di grave e che voglio averne l'esclusiva per il giornale, e allora mi seguiva per evitare che mi cacciassi in qualche guaio.
Magari quella sera, pensavo, me la sarei cavata con un rimprovero, esagerando anche con un paio di giorni in cella.
Ma continuavo a correre, finché giunsi a circa 300 metri dal bivio che porta poi a destra fuori dalla città, a sinistra al bar di Louis.
Mi fermai con una violenta frenata. Stavo sudando freddo. Haldan scese dalla macchina e fece per avvicinarsi, urlo: "Robert? Tutto bene?", ma non fece in tempo ad arrivare vicino allo sportello posteriore della mia macchina che io subito mi lanciai fuori, urlando come un ossesso: "È qui! Fra l'erba! Presto! Sono sicuro che è qui! Presto!".
Mi tuffai fra i cespugli a lato della strada. Haldan era lì, in mezzo alla strada, immobile, con la mano destra sull'impugnatura della pistola: non sapeva se spararmi o seguirmi.
Furono pochi secondi, poi lo trovai, un giovane indiano, ferito, forse investito da un auto e sbalzato in mezzo alle sterpaglie.
Continuavo a sudare freddo. Richiamai Haldan: "Presto! Un'ambulanza! Lo ho trovato! Presto! Lo ho trovato!".
Haldan indietreggio leggermente, accese il dicroico e me lo puntò addosso, vedendo che stavo tenendo sorretto un uomo ferito, sporco di sangue e sotto shock. Subito si tuffò dentro l'auto attraverso il finestrino e, afferrato il microfono della radio, chiese allo sceriffo di chiamare un'ambulanza.
Mentre aspettavamo l'ambulanza, Haldan mi chiese: "Come facevi a saperlo?"
"Beh... Non lo so... ho avuto una specie di premonizione..."
Non mi chiese altro. Forse perché ormai abituato a non chiedere ad un giornalista l'origine delle sue notizie; oppure perché mi aveva creduto, o non mi aveva creduto affatto, era lo stesso: capii che qualcosa lo aveva indotto a darmi corda.
Giunse l'ambulanza, il giovane fu caricato: ci accorgemmo, alla luce delle lampade (Dopo che gli fu sciacquata la faccia dal sangue), che veniva dalla riserva.
Un giovane indiano, con un paio di jeans e una camicia rossa strappata.
Restai con lui tutta la notte, all'ospedale di Minneapolis, fino a quando, all'alba circa, riprese conoscenza.
Parlava un po' di americano, alché riuscii a fargli capire che lo avevo trovato fra i cespugli e lo avevo soccorso.
Non sembrava molto contento di trovarsi in un ospedale, ma le sue condizioni fisiche non gli permettevano di lamentarsi più di tanto.
Finalmente la sera stessa fu dimesso, fasciato ed incerottato un po' ovunque: per fortuna oltre la tanta paura, non si era fatto nulla di grave.
Mi spiegò che si era lanciato fra i cespugli per evitare un camion, e cadendo aveva battuto la testa contro qualcosa, e supponeva di essere svenuto.
Partimmo quella stessa mattina alla volta di Fargo e della riserva: ci aspettava un tragitto molto lungo.
Durante il tragitto venni a sapere che il giovane si chiamava Charlie, in tribù famoso come Gufo dal Becco Ritto.
Al tramonto stavamo entrando nella riserva. Fummo accolti subito da Cane Solitario, che era stato informato dell'assenza di Charlie e si era preoccupato.
Lasciai il capo e il giovane indiano da soli, a parlare, ed andai a cercare Lupo delle Montagne; improvvisamente mi accorsi che stavo sudando, nonostante non fosse per niente caldo.
Lo sciamano era nella sua tenda, mi fece entrare. Stava fumando qualcosa di non ben identificato, che a primo acchitto mi ricordò quello che c'era nel calumet, ma chiaramente misto al dolciastro odore del cannabis.
Rimasi in silenzio un po', osservandolo, poi finalmente gli chiesi: "L'altra sera ti ho visto, vicino al mio ufficio..."
Mi interruppe: "Sicuro? Ero proprio io?"
Non potei fare a meno di scuotere la testa.
Lui continuò: "So che hai fatto qualcosa che non sai spiegarti. Gli dei mi hanno confidato che avevi bisogno di una spinta per riuscirci, e te la hanno data... loro..."
Capivo sempre meno. Ero convinto che si stesse inventando tutto.
Improvvisamente fui assalito da una serie di sospetti incredibili, tipo che magari il tipo alla guida del camion era lui, che poi mi aveva ipnotizzato mentre fumavamo il calumet per portarmi proprio in quel punto, e tantissime altre cose: ero completamente invaso da una incredibile serie di paranoie.
Per quella sera rinunciai al mio intento di capire cosa fosse successo.
Passarono pochi giorni dacché incontrai di nuovo Charlie "Gufo dal becco ritto", proprio lì al bar di Louis.
Era con una comitiva di gente del posto, stavano bevendo teqila, come è buona abitudine da quelle parti.
Non appena entrai nel locale si allontanò dal gruppo, mi si avvicino e mi disse, nel suo americano passato in terra come uno strofinaccio: "Fra quattro giorni gli dei scenderanno su di noi dai Totem. Io vorrei che tu viene con me e fa entrare dei anche in tuo corpo. Sciamano poi unire sangue..."
Il suo sforzo di farsi capire fu ripagato appieno, dato che riuscii a comprendere in quale antico rito indiano voleva portarmi: il Totem, e poi l'Unione di Sangue.
Non capivo cosa c'entrasse lo sciamano, ma poi venni a sapere che era lo sciamano che mi ammirava e che voleva dimostrarmi la sua grande amicizia con l'unione del sangue...
Già, l'unione del sangue. Un rito antichissimo che ammiro: quando due persone vogliono dimostrare la loro amicizia l'un l'altro, si feriscono leggermente un braccio ed uniscono le due ferite in modo che parte del sangue dell'uno vada ad unirsi con il sangue dell'altro.
Fratelli di sangue.
Non conosco una forma di amicizia così radicata fra gli uomini bianchi...
Beh forse in questi anni che comincia a praticarsi la donazione di sangue se ne può parlare, ma questo, devo riconoscerlo, è molto più elevato.
La partecipazione al totem fu per me una esperienza gratificante: con o senza l'aiuto di sostanze, ogni giovane della tribù può tirare fuori il suo spirito, combattente e temerario o timido e pauroso senza che nessuno lo giudichi nel bene o nel male.
L'osservazione dei giovani invasati che cantavano ed urlavano al cielo era quasi liberatoria. e riconosco anche di essermi commosso nel pensare poi al momento in cui il giovane va di fronte allo sciamano; alla destra dello sciamano il capotribù, alla sinistra il più anziano della tribù dopo il capo.
Il giovane si prostra, lo sciamano interroga gli dei, e poi dice al giovane il suo nuovo nome, quello con cui da ora in poi sarà conosciuto in tutta la tribù. Mi stupì pensare che Gufo dal becco ritto si facesse chiamare ancora Charlie, ma era ovvio che ormai le tradizioni si stavano affievolendo fra i giovani così come molte altre abitudini, e già il solo fatto che i pellerossa andassero a caccia con archi e fucili era sintomo di questo decadimento... eppure ancora non tutto era perduto: ancora si respirava l'atmosfera...
Quando tutti i giovani furono giudicati all'ombra del totem, giunse il momento che stava aspettando Lupo delle Montagne, e che forse stavo aspettando anche io.
La tribù era riunita in cerchio (più che altro in ellissi) con al centro un grande fuoco e la statua multicolore intagliata nel legno.
Lo sciamano si portò al centro fra il fuoco e il totem, osservato da tutta la tribù, e mi fece un cenno.
Dopo un attimo di esitazione mi mossi, seguito dal capo tribù Cane Solitario, che teneva in mano qualcosa; quando si avvicino a noi e fu illuminato dal fuoco, vidi che era una freccia.
Il capo disse qualcosa in antica lingua indiana, poi mi guardò, mentre Lupo delle Montagne gentilmente faceva da interprete: "Cane Solitario dice che questo è un momento molto importante per la vita di un Fremecho: l'amicizia che lega due Fratelli di Sangue non può essere spezzata per nessun motivo, e dura per tutta la vita ed oltre."
Sorrisi, abbassando la testa in segno di assenso verso Cane Solitario, che mi rispose allo stesso modo.
Lo sciamano prese la freccia dalle mani del capo tribù con la mano sinistra e, lentamente, con una leggera smorfia di dolore, punse il braccio destro all'interno del polso.
Subito ne venne fuori un rivoletto di sangue che cominciò a gocciolare in terra. Mi passò la freccia, e feci altrettanto.
Mentre mi pungevo il polso con l'affilata punta della freccia, mi venne in mente che la ferita si sarebbe infettata, alché mi misi mentalmente a ridere, dato che al massimo avrei potuto metterci dell'acqua ossigenata al ritorno a casa... Ma tu guarda che cosa penso in questo momento!
Tenevo la freccia con la mano sinistra, il capo villaggio mi fece un cenno e consegnai la freccia ad un anziano che era venuto dietro di noi.
Subito il capo mi prese l'avambraccio braccio destro; lo stesso fece con quello di Lupo delle Montagne, e quindi li avvicino, costringendo le due ferite a combaciarsi.
In realtà non fece alcuna fatica, dato che non opponevamo resistenza ma anzi lo accompagnavamo nel movimento.
Non appena le due ferite si toccarono tutti gli uomini e le donne in cerchio esultarono.
Restammo così, con le braccia unite e sollevate, per circa dieci secondi, poi le abbassamo, mentre intorno a noi i giovani intrecciavano danze e gli anziani intonavano canti antichi.
Lo sciamano mi guardò, poi estrasse dai jeans il bandana, ne strappò meta e me la porse.
Presi il pezzo di stoffa e lo vidi che si fasciava il polso con la sua metà, e feci lo stesso. Ritornammo in cerchio, e restammo li, intorno al fuoco, danzando, camminando, pregando e facendo tantissime altre cose a libero sfogo, fino all'alba.
Peraltro accettai di buon grado di farmi dipingere la faccia con i colori di guerra; c'erano molti uomini che si dipingevano da soli, e molte donne che aiutavano alcuni uomini poco esperti, una di esse aiutò me, dipingendomi sulla faccia varie striscie nere e rosse.
Il giorno dopo avevo il polso leggermente dolorante, ma mi sentivo in piena forma: per fortuna era domenica e non sarei dovuto andare a lavorare alle otto; quando mi svegliai alle undici e mezzo non avevo alcuna fretta.
Mi guardai il polso: la ferita cominciava a dolermi, e credo che si fosse infettata; mi alzai lentamente, andai in bagno e gli versai sopra un po' di acqua ossigenata, che subito divenne sul buco una schiuma biancastra, portandomi un poco di sollievo.
Erano trascorsi solo tre giorni da quella sera dei totem, quando, mentre in redazione stavo torturando una vecchia Hermes 3000 che faticava a darmi le maiuscole che metteva rigorosamente uno spazio dopo ogni lettera "a": ne uscivano gustosi siparietti come "A sentire il nostro invia to credia mo che questa situa zione possa essere risolta dopo un lungo esa me...", proprio lì in redazione entrò una collega con un telex da New York.
"Hanno trovato il petrolio nella riserva indiana, da New York vogliono trasferire gli indiani e sfruttare il giacimento..."
Smisi di colpo di battere. Rimasi in ascolto, incredulo. "...e faranno di tutto perché se ne venga a sapere il meno possibile, ma il presidente li ha fregati, ed ora abbiamo la notizia. Rob te ne occupi tu?"
Mi alzai e mi feci consegnare il foglio della telescrivente, poi mi sedetti sulla scrivania e cominciai a leggere attentamente il telex.
Stava succedendo di nuovo, di nuovo l'uomo bianco voleva spostare gli indiani per approfittare dei suoi terreni. Di nuovo voleva interrompere tradizioni secolari, di nuovo voleva violare le riserve indiane. E voleva farlo di nascosto, come nei primi mesi del 74.
Mi infuriai, accartocciai il telex, ma poi mi trattenni dallo stracciarlo perché volevo che lo leggessero alla riserva, per cui dissi a tutti che per prima cosa sarei andato presso il villaggio per avvertire la gente di quello che stava per succedere, portandomelo dietro.
Così feci, guidando nervosamente fino alla riserva, ma poco prima di giungere, frenai di botto, per non investire un bambino, a circa due miglia dalla riserva.
Ero convinto di conoscerlo, mi sembrava quello che avevo "ritrovato" qualche tempo prima. Era lì, in mezzo alla strada, che mi sorrideva.
Scesi dalla macchina e andai per prenderlo, ma corse nei boschi e in pochi secondi sparì nella macchia senza lasciare tracce.
Restai fermo per alcuni minuti, guardandomi intorno, confuso. Poi risalii in macchina e ripartii, giungendo dopo pochi minuti alla riserva. Sembrava tutto normale, cercai subito il capo tribù e lo sciamano per comunicare loro la notizia: del bambino mi sarei occupato più tardi.
Trovai Charlie e gli chiesi dello sciamano, e lui mi indirizzò presso una tenda, lì vicino.
Dentro c'erano Lupo delle Montagne e Cane Solitario, immersi in preghiera. Davanti a loro il bambino che avevo visto nei boschi, che sembrava addormentato. Impiegai alcuni secondi per notare che non respirava: era morto.
Lupo delle Montagne mi notò, ed uscì subito dalla tenda, mentre Cane Solitario restava prostrato in terra a recitare una qualche antica litania. Ero molto più confuso di prima, dissi subito: "Senti, quel bambino, cosa gli è successo? Forse potevo salvarlo..."
Ma Lupo delle Montagne mi guardò stupito, poi mi disse: "Lo abbiamo trovato all'alba, che non riusciva a respirare, ha raggiunto gli dei poco dopo che lo avevamo trovato. Cosa intendi dire con forse potevo salvarlo?"
"All'alba...? Ho visto un bambino in giro per i boschi, qualche minuto fa, mi era sembrato lui... Allora vuol dire che un altro bambino è scappato dal villaggio, dobbiamo cercarlo..."
Feci per muovermi verso la macchina, ma Lupo delle Montagne mi fermò, mi guardò dritto negli occhi, e mi chiese: "Sei veramente sicuro che il bambino fosse quello che hai visto nella tenda? Dico, veramente?"
Sottolineo l'ultima parola con molta enfasi. Io ripensai al sorriso del piccolo in mezzo alla strada, poi al corpicino disteso dentro la tenda, e poi dissi: "Sì, sono sicuro, era lo stesso bambino, sono certo di non sbagliarmi."
Lo sciamano sorrise. Mi spiegò che quel segno indicava che gli dei avevano ben accettato l'anima del piccolo, forse per farne qualcosa di importante, ma comunque non era quello il problema del quale mi preoccupavo.
Al momento c'era qualcosa di molto più importante: il telex. Gli chiesi di chiamare il capo tribù: dovevamo parlare di qualcosa di importante.
Dopo pochi minuti avevo avvertito entrambi della situazione che si era creata. Cane Solitario mi disse peraltro che alcuni cacciatori della tribù gli avevano riferito di aver notato alcuni uomini bianchi che facevano rilevazioni nel terreno ai confini con la riserva.
Dissi che mi sarei impegnato per fare in modo che la situazione venisse a galla, così come l'altra volta, ma stavolta Lupo delle Montagne mi fermò: "È tutto inutile. Ci saranno mille altre occasioni per cui l'uomo bianco tenterà di appropriarsi delle nostre terre, e non potrai esserci sempre tu a portare avanti questa impari lotta. Sarà meglio che la storia faccia il suo corso. Ormai noi ci siamo rassegnati a subire questi spostamenti. Sono fiducioso che prima o poi troveremo la terra promessa, dove potremo stabilirci senza che nessun uomo bianco interferisca."
Pensai per qualche minuto alle parole dello sciamano, poi risposi: "C'è una cosa che vorrei mi dicessi: dove si trova il vostro cimitero? È importante, perché cercherò di fare in modo che almeno le vostre tombe non vengano profanate..."
"Nessun uomo bianco è mai stato al corrente della posizione dei nostri cimiteri; questo ha portato a scoperte improvvise e volontarie di tombe... Devo chiedere agli dei se ti daranno il permesso di conoscerne l'ubicazione: in fondo lo scopo per cui tu vuoi conoscere questo segreto è degno di ammirazione, e non di rimproveri."
Tornai al lavoro, cestinai il telex sgualcito con una punta di ribrezzo. In fondo non gli avevo proposto un pugno in un occhio, ma di salvare le loro terre. Ero quasi deciso di scrivere l'articolo comunque, anche se sapevo che in fondo Lupo delle Montagne non aveva tutti i torti. E poi, si trattava di loro problemi, giustamente erano loro a doverlo decidere. Io il mio dovere di avvertirli lo avevo espletato, quello di fare in modo che non gli toccassero il cimitero cercavo di portarlo in atto.
Tutto stava poi alla risposta dello sciamano, ovvero degli dei per interposta persona...
Non so dire se tenere in considerazione la religione indiana come reale, o pensare che si tratta di una serie di riti antichi senza troppo valore. Eppure c'era un motivo che mi aveva spinto a chiedere del cimitero: ricordo ancora adesso di un cantiere in ex territorio indiano a poche miglia da Minneapolis; durante gli scavi furono ritrovati i resti di un cimitero. I minatori trovarono delle ossa e, a chiaro scopo di sfregio (erano anni che dicevano che i pellerossa si limitavano a fregare terre allo stato per farci le loro cazzate sopra), si erano messi a giocare con quelle ossa. Percuotevano due femori su una cassa toracica, come una specie di macabro tamburo; altri mettevano alcune ossa in fila su una tavola e, lanciando altre ossa, facevano una sorta di macabro tiro al bersaglio.
Il loro divertimento durò però solo tre giorni, il quarto erano tutti a casa, febbricitanti.
Il capocantiere, preoccupato si era allora rivolto allo stregone della tribù Joka Cheyenne, tribù che occupava quelle terre prima di uno di quei traslochi richiesti (imposti?) dagli uomini bianchi.
Più avanti il capocantiere disse che lo sciamano sentiva nell'aria qualcosa di "malvagio" ancora nelle vicinanze del cantiere, e ancora non gli aveva spiegato il motivo della sua chiamata.
Lo stregone disse che le ossa trovate dovevano venire ricomposte e risotterrate, lontano dagli scavi ed in un posto che non venisse mai toccato né da quelli né da altri scavi. Nel farlo, le ossa dovevano venire trattate con rispetto, trasportate con attenzione, con il timore ed il rispetto che si porta verso le reliquie sacre, e non come se fossero pezzi di legno da portare in segheria.
Così fu fatto. Inspiegabilmente (o forse si può spiegare?) lo stesso giorno che tutte le ossa furono sotterrate da alcuni minatori, ed ebbero ricevuto la benedizione da un pastore avventista e dallo stregone, proprio quello stesso giorno tutti i minatori ammalati guarirono misteriosamente.
Ma torniamo a noi: quella sera mi diressi di nuovo verso il villaggio, volevo tentare di convincere Lupo delle Montagne e Cane Solitario che era il caso di tentare, ma poi decisi, a metà strada, che forse non era il caso.
L'indecisione mi fece guidare fino al bar di Louis. Entrai, arrivai al banco ed ordinai una birra; in quella cominciarono a giungere dalla riserva dei lamenti.
Erano ululati di lupo, ma sembravano particolarmente profondi e tristi. La cosa che mi colpì di più, fu peraltro il fatto che, non appena cominciarono questi ululati, i pochi indiani che erano nel bar avevano cominciato, silenziosamente, ad alzarsi, lasciando le loro bevande a metà, si avvicinavano alla cassa e pagavano, per poi uscire. Qualcuno un po' brillo aveva fatto cadere il bicchiere in terra, si era alzato e si era diretto fuori. Notai che gli ultimi che uscivano pagarono anche le cose ordinati dagli ubriachi usciti direttamente senza pagare.
Sembravano tutti in trance: si muovevano lentamente, guardando verso le colline con una specie di espressione preoccupata, un'espressione del volto che non avevo mai visto prima e che non saprei descrivere. Forse non proprio preoccupata, diciamo un misto di paura, preoccupazione, serietà e rabbia.
In pochi minuti se n'erano andati fuori tutti.
Finita la birra uscii anche io, presi la macchina e decisi che volevo andare in fondo alla cosa, per cui mi diressi verso la riserva, ma fui costretto a fermarmi.
Praticamente poche centinaia di metri dopo aver imboccato la sterrata che conduceva alla riserva, non potevo avanzare.
C'erano dei lupi. Centinaia di lupi.
Grigi, o bruni, maculati. Mi fissavano con i loro occhietti che brillavano nel buio, tagliato dai fari della macchina.
Scesi dall'auto, ammutolito: non si muovevano, non davano segno di timore o ferocia, non facevano alcun verso, anche se in sottofondo continuavo a sentire, più vicini, gli ululati tristi di un singolo lupo.
Provai a suonare il clacson, ma nulla.
Non batterono ciglio.
Se avessi voluto passare avrei dovuto investirli, e non sono tipo da farlo.
Inoltre, pensai, data la loro enorme quantità (mio Dio... dicevano che i lupi si stanno estinguendo, ma io per almeno cinquanta metri davanti a me vedevo solo un enorme tappeto di pelliccia, sulla strada e sull'erba. Sono *centinaia*, forse anche mille), avrebbero potuto anche assalirmi se avessi tentato una operazione simile.
Rientrai in auto e mi diressi indietro. Tornai verso casa.
Due giorni dopo mi presentai di nuovo a Lupo delle Montagne, ormai il tempo stringeva.
Scesi dall'auto e mi diressi verso la sua tenda, lo trovai lì, immerso nella lettura di un libro americano sui cowboys, sorrisi pensando che in fondo era una lettura che ci si poteva aspettare da un purosangue indiano.
Alzò gli occhi e mi notò, poggiò il libro in terra, aperto alla pagina che stava leggendo, e mi disse: "Gli dei hanno acconsentito che tu veda dove si trova il nostro cimitero, a condizione che poi faccia in modo che non venga profanato."
"Farò del mio meglio. Lo prometto", annunciai solennemente.
"So che sarà così."
Cominciammo a passeggiare nel bosco, giungendo ad una radura fra gli alberi, a circa un miglio dal nucleo del villaggio.
Memorizzai il posto, e poi salutai Lupo delle Montagne e mi diressi al lavoro.
Dopo pochissimi giorni la tribù Fremecho fu costretta a traslocare, in piena notte, come era pessima abitudine del periodo, lontano da occhi indiscreti. Però molti avevano visto. Se non gli indiani che se ne andavano sui camion e sui carri con le loro poche cose, tutti quanti avevano notato i grandi camion della Shell che andavano verso la riserva.
La stessa mattina successiva al trasloco, mi recai presso la riserva, o forse dovevo dire il cantiere...
Giunto lì andai subito dal capocantiere, il quale, non appena entrai nella sua roulotte, mi riconobbe: "Oh, il signor Furihan... buon giorno, mi dica: qual buon vento la spinge a presentarsi qui a quest'ora del mattino?"
Esordii immediatamente con parole dure: "Buono non è certo. Direi vento di burrasca. Ho molto a cuore la situazione delle tribù indiane che vengono spostate a destra e a sinistra come un mobile inutile che passa di soffitta in soffitta."
"Sì, lo so: ho letto molti suoi articoli, ma vede il problema è che io mi limito a sottostare a degli ordini, e chi me li da ha anche lui qualcuno più in alto che..."
"Sì, sì, certo: fino ad arrivare a Dio, che magari ha qualcuno sopra di lui, l'importante è che tutti eseguiamo degli ordini e non è mai colpa di nessuno se le cose accadono. Certo, certo, sono d'accordo..."
"Andiamo, sempre questo discorso polemico..."
"Perché, tutti che dicono: eseguo degli ordini non è polemico forse?"
Il capocantiere interruppe bruscamente la discussione, con un pizzico d'ira in volto: sapeva che è pericoloso mettersi contro i giornalisti, e comunque fu meglio per tutti interrompere quella discussione che stava per sfociare in lite. Dopo qualche secondo mi chiese: "Perché è venuto qui?"
La mia risposta fu più pacata: "Ho una specie di missione da compiere: ho promesso una cosa a quella tribù, e voglio fare in modo che venga mantenuta. Ho promesso loro che non verrà toccato il loro cimitero."
Il capocantiere si fece improvvisamente scuro in volto, la sua voce cominciò ad avere un tono più basso e preoccupato: "E... dove si troverebbe questo cimitero?"
"Venga con me, glielo mostrerò."
Giungemmo, assieme a due operai, alla radura. Subito il tipo disse ai due uomini di recintare quella zona tenendosi larghi di circa cinque o sei metri, e ordino di far sapere che nessuno doveva, per nessun motivo, superare la recinzione, e men che meno scavare in quel luogo, o lasciarvi attrezzi.
Mentre tornavamo verso il cantiere, i due uomini attaccavano del nastro giallo agli alberi, in attesa di apporre una recinzione migliore. A metà strada, finalmente, il responsabile mi confesso che era stato a capo di quel cantiere in territorio indiano, quello del 71, dove trovarono le ossa.
Non voleva ripetere un'esperienza simile, perché ne era stato profondamente colpito.
Tutti vedevano chiaramente, dopo qualche tempo, i pozzi che crescevano intorno alle colline, ed in fondo non si lamentavano: i prezzi del carburante cominciavano a scendere.
Era trascorso un mese da quel trasferimento. Non sapevo dove fossero finiti gli Fremechos, ma sapevo che probabilmente non avrei più rivisto Cane Solitario, né Lupo delle Montagne, né Gufo dal becco ritto, né nessun altro della tribù...
Proprio un mese dopo, in un freddo pomeriggio di metà ottobre, mi trovavo nei boschi dove una volta era vissuta quella tribù, in un appezzamento di terreno intorno ai pozzi della Shell, che per miracolo non era stato toccato dal progresso, grazie a naturalisti che si erano incatenati agli alberi secolari da abbattere.
Bella forza. Gli alberi si, i pellerossa no. Già: gli alberi sono secolari, sono belli, sono pezzi di storia dei boschi. Gli indiani invece cosa sono? Non sono forse anche loro pezzi di storia secolare? Loro e le lotte ingaggiate con l'uomo bianco? Loro e le loro tradizioni antiche?
Ero seduto sull'erba, a pensare a queste cose, grattandomi distrattamente la cicatrice che avevo sul polso destro, quando venni interrotto. Dal sottobosco apparve un lupo, grigio e con il muso maculato. Si avvicinò lentamente a me, fino a circa due o tre metri, poi si accucciò.
Mi guardò, poi guardò in direzione del polso che mi stavo grattando, poi si mise seduto e cominciò a leccarsi la zampa destra.
Notai un segno rosso sulla zampa: il sangue si era ormai rappreso, ma la crosta c'era, e una cicatrice la avrebbe sostituita in breve tempo, e gli sarebbe rimasta a lungo.
Era particolare il fatto che la ferita sulla zampa aveva una forma circolare ed una punta allungata verso l'alto, come se fosse stata procurata con una lama tonda, la punta di una freccia, poi tolta piegando la freccia verso l'alto. Ma non sembrava profonda.
Notai la somiglianza della ferita alla zampa del lupo con quella che avevo sul polso.
Il lupo dopo qualche secondo smise di leccarsi la zampa e cominciò a fissarmi con i suoi occhietti azzurri.
Lo guardai, dritto negli occhi, e restammo così a lungo.

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